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La sostenibilità in ambito sanitario: il ruolo dell’ambiente costruito

Una sanità sostenibile è possibile, ed è realizzabile attraverso interventi che siano parte di una visione ampia e complessiva, che vede gli ospedali come infrastrutture complesse, dove diventa necessario inserire strumenti di valutazione sull’ambiente e non solo sulle qualità organizzative o cliniche.

Questo è uno dei focus delle ricerche e dei tavoli di lavoro emersi durante uno degli ultimi Joint Research Platform Healthcare Infrastractures, piattaforma guidata dal Politecnico di Milano – Dipartimento ABC, dalla Fondazione Politecnico di Milano e dal Design & Health Lab, di cui Andrea Brambilla, architetto, è parte. Durante il tavolo del JRP è emersa l’urgenza di rivedere il tema della sostenibilità a partire anche dal costruito e dall’architettura: ne abbiamo parlato con il dottor Brambilla. 

Ambiente e salute, quale connessione? 

“I temi scientifici che si sviluppano all’interno del JRP vengono gestiti dal nostro gruppo di ricerca multidisciplinare interno, chiamato Design and Lab. Il dipartimento di Architettura ingegneria delle Costruzioni e Ambiente costruito, di cui faccio parte – racconta l’architetto Brambilla – si occupa di tutto ciò che va a comporre il rapporto tra l’ambiente costruito e la salute, ovvero su elementi e tipologie di edifici legati al mondo healthcare”. I temi che diventano il fil rouge del lavoro sono quelli della promozione e protezione della salute, che si collega ad un filone di ricerca interno al Politecnico di Milano di Hospital Design, realizzando uno dei propositi fondamenti del JRP. 

“È un elemento molto importante – continua Brambilla – poiché costituisce il cosiddetto terzo pilastro; oltre alla didattica e alla ricerca, vi è la terza missione: quella di portare le ricerche fuori dall’ambito universitario per calarle nel territorio, verso le persone e il mondo della produzione”. Il JRP quindi “svolge esattamente questo ruolo di ponte, mettendo in correlazione gli elementi di ricerca e analisi con le istituzioni e le imprese”. 

La sostenibilità in ambito sanitario

La sostenibilità è un concetto olistico che al suo interno comprende tematiche ambientali, sociali, energetiche, economiche ed organizzative. In ambito sanitario, come sottolinea anche l’approccio One Health portato avanti dall’UE, coinvolge sicuramente l’accesso alle cure, la digitalizzazione dei processi e la gestione del rischio, ma riguarda anche il rapporto tra l’uomo e l’ambiente sanitario, compreso il punto di vista architettonico. “Analizzare l’ambiente significa favorire l’accesso alle cure e alle strutture per i pazienti, ma anche ripensare gli ambienti che quotidianamente vivono gli operatori sanitari – continua Brambilla – Secondo l’ultimo report AGENAS, c’è stato un aumento dei costi tra il 2021 e il 2022 fino anche al 90% in più per l’utilizzo di energia elettrica, termica o l’accesso ad altre fonti energetiche. Problematiche che trovano terreno in un parco edilizio ospedaliero che risulta abbastanza obsoleto in Italia, così come anche nel resto d’Europa, al netto di problematiche specifiche per ogni Paese”. 

Una grande opportunità è oggi messa in campo dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: è importante, perciò, mettere in luce quali siano le azioni strategiche, sia a livello gestionale che operativo, dei diversi attori della filiera. 

Sanità sostenibile, la ricerca JRP

Non solo un cambio di cultura e di ragionamento, quindi, ma un intervento concreto. Da questi presupposti è cominciato il progetto di ricerca, “Healthy and Sustainable Hospital Evaluation—A Review of POE Tools for Hospital Assessment in an Evidence-Based Design Framework, coordinato dal professor Stefano Capolongo per evidenziare la necessità di nuovi strumenti di valutazione della qualità ambientale e architettonica degli ambienti sanitari. 

“Dopo aver svolto una ampia revisione della letteratura scientifica degli strumenti esistenti, – spiega Brambilla – abbiamo quindi sviluppato uno strumento di valutazione basato sull’analisi multicriteriale, che possa aiutare i decision maker, quindi direttori generali, direttori strategici degli ospedali, ad avere un punteggio sintetico di corrispondenza per i tre ambiti della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale e quella organizzativa, confrontando i risultati con benchmark internazionali”. Questa valutazione è passata attraverso una attenta analisi degli strumenti di monitoraggio a disposizione, come ad esempio la prima versione del software “SustHealth” sviluppato dal Politecnico di Milano nel 2015, per arricchirlo e aggiornarlo rispetto alle esigenze contemporanee e soprattutto renderlo più operativo in una versione 2.0, oggi in fase di ulteriore implementazione per in riferimento alle tematiche ESG; ma anche di strumenti più legati al tema della sostenibilità ambientale, per esempio il LEED o il BREEAM, strumenti che servono per certificare anche alcuni sviluppi immobiliari come con una etichetta di sostenibilità che poi, oltre che produrre dei vantaggi in termini ambientali, producono anche dei vantaggi in termini di valorizzazione degli asset di Real estate”.

Ne emerge una grande carenza di attenzione agli strumenti di verifica della qualità dell’ambiente costruito: “Diversi studi di Evidence-Based Design dimostrano come, per esempio, la vista da una finestra su un’area verde rispetto alla vista di una finestra sul muro produce dei miglioramenti importanti nei pazienti, ma anche nello staff, fino a ridurre anche il tempo di degenza; altri riguardano, il tema delle infezioni correlate all’assistenza, nelle differenze tra camere singole o multiple e il rischio di contagi – aggiunge Brambilla – Mancava però uno strumento capace di mettere a sistema questi tre mondi, quello della sostenibilità sociale, ambientale, organizzativa e soprattutto indicare delle modalità operative di valutazione”. 

Il gruppo di lavoro ha quindi “aggiornato tutto l’elenco di circa 200 indicatori con relative variabili di misurazione, coinvolgendo sia progettisti che gestori ospedalieri che medici di direzione sanitaria, che hanno collaborato per dare dei pesi diversi rispetto alle caratteristiche dell’indicatore. Dopodiché lo strumento è stato testato, ottenendo quindi una validazione sul campo, in ospedali italiani e in 15 ospedali in Germania. 

Il progetto, iniziato nel 2019 e tuttora in fase di continua implementazione, ha ricevuto anche riconoscimenti da parte della Regione Lombardia e dalla European Institute for Innovation and Technology, proprio per il suo carattere di innovazione e rilevanza.

One Health: salute umana, animale e ambientale, un approccio integrato al risk management

L’approccio One Health rappresenta una modalità innovativa di affrontare le prossime sfide della salute globale. Questa visione dà il via a un importante cambio di paradigma, e sottolinea quanto l’interconnessione tra la salute umana, quella animale e quella dell’ambiente sia fondamentale. Vediamo in cosa consiste esattamente l’approccio One Health, e perché può essere vincente anche nel risk management. 

Cos’è l’approccio One Health: definizione, principi e storia

Come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, One Health è un modello sanitario che si basa sull’integrazione di due principi fondamentali: l‘interconnessione tra salute umana, animale e ambientale, e l’intersezione di più discipline mediche. Il risultato è un metodo olistico che riconosce quanto la salute delle persone, degli animali e della nostra Terra siano strettamente legate: secondo questo approccio, per risolvere in maniera efficace un problema sanitario non è possibile focalizzare l’attenzione esclusivamente su un singolo aspetto ma occorre abbracciare una visione a 360° che contempli ogni elemento coinvolto.

La risoluzione dei problemi di sanità pubblica, quindi, non può prescindere da un’azione coordinata (che comprende anche una corretta interpretazione dei dati a nostra disposizione) e da un impegno collaborativo tra diverse professionalità coinvolte – dai medici ai biologi, dai veterinari agli esperti di alimentazione e agli agronomi. Il suo obiettivo principale è dunque quello di promuovere un’azione sinergica che possa garantire il benessere di tutti gli esseri viventi e dell’ambiente in cui essi vivono.

Le radici di One Health e la sua diffusione

La filosofia alla base dell’approccio One Health affonda le sue radici nel concetto di “one medicine”, un’idea proposta per la prima volta dal veterinario ed epidemiologo Calvin Schwabe negli anni ‘60. Schwabe riteneva che la medicina umana e quella veterinaria dovessero integrarsi per affrontare al meglio i problemi di salute pubblica, in particolare quelli legate alle malattie zoonotiche – ossia le malattie che, tramite il salto di specie, passano dagli animali agli esseri umani.

Negli ultimi decenni, questo concetto è stato ampliato per includere anche la salute ambientale, dando origine al moderno approccio One Health, che riconosce come la salute umana, animale e ambientale siano intimamente connesse.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’ente di riferimento per la sanità pubblica in Italia, ha preso a cuore l’approccio One Health, promuovendolo attivamente nei suoi programmi e nelle sue ricerche, con particolare attenzione alle zoonosi e alla resistenza antimicrobica.

Nel 2017, la Commissione Europea ha lanciato il Piano d’Azione One Health per combattere la resistenza antimicrobica, che rappresenta una grave minaccia per il benessere. Durante il Global Health Summit del 2021 tenutosi a Roma, i leader del G20 e di altri Stati, riuniti insieme ai capi delle organizzazioni internazionali, hanno individuato in One Health l’approccio vincente per affrontare i rischi a cui la sanità globale andrà incontro nei prossimi anni e fare tesoro di quanto appreso durante la pandemia di Covid-19.

Come l’approccio One Health può aiutare il risk management

L’approccio One Health, come abbiamo visto, trova applicazione in un’ampia varietà di settori, puntando alla massima protezione della salute del nostro pianeta e dei suoi abitanti. Riveste, pertanto, un ruolo fondamentale anche nel risk management del futuro. Nell’ambito di One Health, i rischi possono riguardare le malattie zoonotiche, la resistenza antimicrobica, l’inquinamento ambientale, le minacce alla sicurezza alimentare e molteplici altri elementi.

Un approccio di tipo olistico portato avanti anche da Relyens, applicando una metodologia basata su tre pilastri: l’analisi del rischio, la prevenzione e l’assicurazione.

  • Il primo passo del processo di gestione del rischio è sapere in cosa consiste. Relyens dedica grande attenzione all’identificazione e alla valutazione dei rischi potenziali, esaminando il contesto per comprendere meglio la natura e la portata di questi rischi. Tale passaggio preliminare è fondamentale per sviluppare strategie efficaci di gestione.
  • Il secondo pilastro del processo di gestione del rischio è la prevenzione. Dopo aver identificato e valutato i rischi, Relyens mette in atto una serie di misure per ridurne l’incidenza e l’impatto. Queste possono includere formazione, implementazione di protocolli di sicurezza, miglioramento delle pratiche operative, e molto altro ancora.
  • L’ultimo pilastro è l’assicurazione. Nonostante gli sforzi di analisi e prevenzione, può capitare che alcuni rischi rimangano. In tal caso, Relyens fornisce soluzioni di assicurazione personalizzate per coprire questi rischi residui. Queste possono aiutare a proteggere le organizzazioni e le persone da potenziali perdite finanziarie, fornendo una sicurezza finanziaria indispensabile.

Attraverso questo approccio integrato al risk management, Relyens contribuisce non solo a gestire il rischio, ma anche a creare un ambiente più sicuro e sano per tutti. Un modello di gestione immediato e sostenibile nel tempo che rafforza l’importanza del concetto di One Health, la cui implementazione su larga scala richiederà uno sforzo congiunto da parte di tutte le discipline e settori coinvolti, compreso quello del risk management. Le ricompense potenziali – in termini di miglioramento della salute umana, animale e ambientale – sono enormi.

La centralità dei dati e la data literacy nell’era digitale: l’approccio di Relyens 

Nell’era dell’informazione la data literacy, ossia la capacità di leggere, comprendere e comunicare i dati, è diventata un elemento imprescindibile. Stiamo parlando di un nuovo linguaggio fatto di numeri e informazioni, la cui comprensione è necessaria per sfruttare appieno le potenzialità del mercato moderno. Il processo di evoluzione digitale della società è ben riconosciuto e negli ultimi dieci anni ha investito la nostra economia in maniera significativa. Ma cosa significa lavorare nell’ambito del risk management in sanità mettendo al centro i dati?

Il valore della data literacy

Oggi giorno, la data literacy non può più essere considerata una scelta, ma deve essere vista come un vero e proprio obiettivo strategico per rimanere competitivi e sfruttare al meglio le opportunità offerte da un mercato sempre più data-driven.

Fabio Campanini, Data Analyst di Relyens, si riferisce al “dato” come alla chiave per un processo decisionale efficace. “Come tutti i linguaggi, anche la data literacy diviene vettore di comunicazione in grado di includere, connettere e creare sinergie se adeguatamente padroneggiato. Viceversa, di escludere e isolare se non se ne conosce la grammatica,” dice Campanini.
Le compagnie assicurative, che vantano una lunga storia nell’utilizzo degli analytics, si sono gradualmente evolute sfruttando big data e intelligenza artificiale per ottimizzare i loro modelli di business, migliorare le performance e offrire ai propri clienti soluzioni calibrate sulle loro specifiche esigenze.

La Data Literacy nel mondo del Risk Management: gli obiettivi di Relyens

Durante la pandemia, anche il settore sanitario ha visto accelerare esponenzialmente il processo di digitalizzazione. A dispetto della drammaticità del momento e di tutte le difficoltà a cui il settore è andato incontro, è emersa chiaramente la necessità di sfruttare la grande mole di dati generati per ottimizzare la filiera di erogazione delle cure.
Relyens vuole porsi come risk manager di riferimento per gli attori della sanità e del territorio: nel corso della sua trasformazione per raggiungere questo obiettivo l’azienda ha evoluto il tradizionale mestiere dell’assicuratore, investendo in nuovi settori e in un team poliedrico

Ogni collaboratore, attraverso numerose attività formative e un monitoraggio costante delle competenze, viene formato nel linguaggio dei dati: si tratta di un percorso intrapreso coerentemente con l’evoluzione verso un modello aziendale data-driven, con l’ambizione di diffondere questa cultura nell’intero ecosistema sanitario.

“L’alfabetizzazione del dato” sottolinea Campanini “è una sfida imprescindibile che può essere vinta agendo su due piani interconnessi: introduzione di nuovi ruoli specializzati con competenze verticali e aggiornamento continuo e trasversale ai vari livelli aziendali”.

La data literacy è dunque uno strumento importante sia per Relyens – internamente, per ottimizzare la gestione dei sinistri e del rischio – che per i clienti, essendo un ottimo strumento di risk management nella riduzione dei sinistri – e, di conseguenza, nel risparmio.

Perché adottare il linguaggio dei dati?

In un mercato che richiede un approccio sempre più data-driven, la data literacy rappresenta un elemento indispensabile per tutte le aziende che vogliono essere al passo con i tempi. 

Con l’obiettivo di rimanere competitivi, è vitale imparare questo nuovo linguaggio e sfruttare al meglio le opportunità che esso offre. In Relyens vogliamo aprire la strada, investendo in formazione e sviluppando un modello di business centrato sui dati

“La centralità dei dati è ormai indiscutibile e il futuro appartiene a chi è in grado di padroneggiarli” conclude Campanini.

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Legge Gelli Bianco e un sistema sostenibile di responsabilità sanitaria

Un parterre di relatori d’eccezione, provenienti da esperienze e settori di competenza diversi, si è ritrovato in Senato in occasione di un convegno dedicato a raccogliere spunti, riflessioni e proposte di implementazione sulla legge 24/2017, nota come Legge Gelli Bianco che ha introdotto per le strutture sanitarie l’obbligo di assicurazione e quello di dotarsi di servizi di risk management.
“La legge nasce con la più nobile delle intenzioni, ovvero quella di tutelare il danneggiato – ha commentato Diego Ammirabile, Head of Claims Relyens – A sei anni dalla sua introduzione, tuttavia, nella sua applicazione emergono delle lacune e delle problematiche che rischiano di mettere in secondo piano tale intento”.

Cosa è emerso dal convegno

Il convegno, promosso su iniziativa del Senatore Antonio Guidi e in collaborazione con la Società Medico-Giuridica Melchiorre Gioia,  tenutosi presso la Sala Zuccari mercoledì 28 giugno, ha visto la partecipazione di diversi attori coinvolti.

Molti i contributi e le testimonianze in interventi complementari, che hanno restituito una solida e tecnica ricostruzione del quadro normativo che volge a tutelare integralmente sia le strutture sia gli operatori sanitari, tenendo sempre il focus sul risarcimento del danneggiato.

“Il convegno è stato un vero e proprio incubatore di idee, una analisi di diritto costituzionale, tecnica e non politica – ha commentato ancora Ammirabile – Gli interventi, concentrandosi su dati e limiti della legge, hanno sollevato all’unanimità come sia urgente colmare una contraddizione su tutte: se da una parte è necessario avvicinare il rapporto tra vittima, istituzioni e ospedali, è altrettanto urgente ridurre la disparità di trattamento tra strutture auto assicurate e non, che nella realizzazione stride in maniera molto forte con lo spirito e il senso della legge”.

Punti di attenzione della legge Gelli Bianco sulla responsabilità sanitaria

Il sistema misto, infatti, legittima i diversi binari della responsabilità in ambito sanitario: da un lato quella contrattuale, a carico delle strutture sia pubbliche che private, e dei medici, dall’altro l’extracontrattuale, rivolta a chi svolge la professione sanitaria in una struttura o in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. 

In particolare, a marcare uno squilibrio tra strutture assicurate ed auto assicurate è il Fondo di Garanzia per i danni derivanti dalla responsabilità sanitaria, istituito dalla medesima legge al fine di garantire i risarcimenti laddove venga a mancare la copertura assicurativa, o questa sia inferiore al risarcimento dovuto. Come ha commentato Ammirabile, “sebbene sia estremamente importante la sua presenza poiché tutela la vittima del sinistro, porta inevitabilmente a una disparità di contribuzione”.

“Sarebbe necessario, infatti, – ha aggiunto Delia Roselli, Legal and Compliance Manager di Relyens – che anche le strutture auto assicurate intervenissero al foraggiamento del fondo seppur in maniera proporzionale. Non solo: il rischio ulteriore è che, vista la contribuzione e gli alti livelli di tassazione, i maggiori player di qualità si allontanino dal mercato, e con loro le competenze d’eccellenza”.

Il contributo e la visione di Relyens

Convegni così importanti, che vedono Relyens centrale non solo come attore, ma anche come soggetto di parola sul tema, sottolineano l’importanza di costruire e diffondere una cultura del rischio che diventi veicolo anche di prevenzione. Un percorso in cui l’assicuratore assume un ruolo centrale.

“La figura dell’assicuratore è ancora oggi inquinata da scetticismo e sospetto, oltre che spesso limitata alle garanzie di natura finanziaria – commenta ancora Ammirabile – nella visione di Relyens, si tratta invece di un ruolo centrale che promuove best practice e contribuisce alla gestione ottimale del Risk management, ponendosi a garanzia e tutela di tutti gli attori in campo, al fine non solo di ottenere una risoluzione dei sinistri equa e giusta, ma anche per ridurre complessivamente il rischio del mercato”.

“Promuoviamo sicuramente l’innovazione in termini di linee guida e regolamentazioni quantitative e qualitative sul tema dell’autoassicurazione e della contribuzione al Fondo di Garanzia – ha aggiunto Delia Roselli, Legal and Compliance Manager presso Relyens – Si tratta ancora di un sistema che ha ripreso il modello delle RCA, ma che necessita di integrazioni e migliorie che lo rendano pienamente coerente e adeguato al settore sanitario, in modo da implementare al meglio il sistema della responsabilità civile medica. È una richiesta evidente e che deve essere colmata al prima possibile”.

Partecipare ad incontri di tale livello e spessore conferma l’importaza della creazione di un dialogo tra istituzioni e attori del settore: solo attraverso il confronto con i professionisti del settore è possibile, infatti, intercettare le soluzioni milgiori per potenziare una sanità sempre più sicura e quindi di qualità. Creare sinergie positive e soprattutto costruttive è infatti ciò che guida Relyens da sempre nella creazione di progetti e servizi che contribuiscano a creare una solida cultura del rischio all’interno del nostro Paese.

Pet Therapy, Portare gli animali in terapia intensiva per umanizzare ancor di più le cure: lo studio SIAARTI ne conferma i benefici

Gli effetti benefici della pet therapy sono largamente riconosciuti: l’interazione con animali, infatti, aiuta la produzione di endorfine, e conseguentemente induce la riduzione dei livelli di stress e di percezione del dolore, oltre ad avere effetti positivi sul sistema cardio circolatorio, cognitivo e di riabilitazione fisica. Si può quindi affermare che gli outcome siano positivi sia in termini biochimici che clinici. Il team di Gestione del Rischio Clinico della Società Italiana di Anestesia e Rianimazione (SIAARTI)  ha deciso di indagare sulle possibilità di implementare gli interventi con la mediazione degli animali all’interno dei reparti di terapia intensiva, pubblicando una revisione sistematica della letteratura. Vediamo insieme al primo firmatario, dottor Marco Fiore, cosa è emerso dallo studio e quali sono i benefici della pet therapy in un’ottica di umanizzazione delle cure.

Il quadro normativo di riferimento per la pet therapy in Italia 

Al momento, il riferimento legislativo che norma gli IAA (Interventi Assistiti con gli Animali) è l’accordo del 6 febbraio 2003 stretto tra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano in materia di benessere degli animali da compagnia e Pet Therapy. Tale documento, tra le altre cose, attribuisce alle Regioni e Province autonome il compito di agevolare a ampliare le iniziative clinico- terapeutiche coinvolgendo animali domestici al fine di “agevolare il mantenimento del contatto delle persone, anziani e bambini in particolare, siano esse residenti presso strutture residenziali, quali case di riposo e strutture protette, o ricoverate presso Istituti di cura, con animali da compagnia utilizzabili per la pet-therapy”.

La nascita di questo particolare tipo di terapia viene attribuita all’intuizione del neuropsichiatra infantile Boris Levinson nel 1953, che notò come uno dei bambini autistici che aveva in cura mostrasse risultati più positivi dopo e durante l’interazione con il cane del dottore. 

Dal 2003 in poi, molti reparti ospedalieri sono stati aperti agli IAA soprattutto con pazienti pediatrici e di declino cognitivo. Non è stata invece svolta altrettanta ricerca e sperimentazione per quanto concerne le terapie intensive. 

Umanizzare le cure grazie alla presenza degli animali: cosa emerge dallo studio

All’interno dello studio “Risk and benefits of animal-assisted interventions for critically ill patients admitted to intensive care units”, di cui primo firmatario è il dott. Marco Fiore, sono state revisionate ben 1302 pubblicazioni. Di queste, solamente 6 indagavano l’utilizzo degli IAA in terapie intensive di rianimazione, e 5 di questi ne registravano i benefici. 

Allargando il setting anche a contesti ambulatoriali e pediatrici, ne risulta che i benefici derivanti dalle IAA sono molteplici. Si notano, ad esempio, netti miglioramenti nella gestione dell’ansia, nella percezione del dolore, ma anche nella riabilitazione, poiché la presenza dell’animale può essere di stimolo alle attività di riabilitazione fisica, oltre che al reinserimento in un contesto socio emotivo positivo e piacevole. “È stato appurato, ad esempio, che l’interazione con un acquario ha il potenziale per migliorare il benessere umano dei pazienti, e migliorare l’attenzione dei pazienti con declino cognitivo (morbo di Alzheimer), anche se la ricerca su questo argomento è attualmente limitata” racconta il dottor Fiore. 

Anche in campo riabilitativo, la presenza e l’interazione con animali è confermata essere uno stimolo a percorrere distanze più lunghe e affrontare gli sforzi fisici, soprattutto in caso di soggetti sottoposti a interventi cardiaci. 

Il rischio di zoonosi

La maggioranza degli studi, però, non esploa l’utilizzo di tali tecniche all’interno delle Terapie intensive. 

“I reparti di rianimazione del nostro Paese sono molto più chiusi rispetto a quelli del Nord Europa anche perché vi è una forte e diffusa antibiotico resistenza: il rischio quindi che un animale possa essere vettore di un batterio e che questo possa compromettere lo stato di salute di un paziente già in condizioni critiche disincentiva queste iniziative” spiega ancora il dott.Marco Fiore.

Ecco perché uno degli obiettivi principali della revisione sistematica della letteratura effettuata dal team è stato proprio quello di indagare il rischio zoonotico in terapia intensiva, ovvero la possibilità che l’animale trasmetta, direttamente o indirettamente, dei batteri. “Non è stato possibile esplorare l’outcome, poiché si tratta di un elemento non pervenuto all’interno della letteratura revisionata” conferma il dottor Fiore, sottolineando la necessità di condurre studi approfonditi e ad hoc proprio su questo tema al fine di costruire un protocollo condiviso e implementabile. 

“Vi sono sicuramente delle limitazioni oggettive agli IAA all’interno della terapia intensiva, oltre al rischio zoonotico: la gestione degli spazi, ad esempio, poiché molti pazienti sono collegati a macchinari e sono quindi sottoposti a un movimento limitato; un altro aspetto da considerare è legato al tempo, che in terapia intensiva è un fattore estremamente variabile e non controllabile. Da un momento all’altro le condizioni di un paziente possono aggravarsi e per questo, alcuni interventi non  possono essere calendarizzati come invece avviene  in ambiente ambulatoriale”.

I cani, alleati della pet therapy in terapia intensiva

Gli animali prediletti per questo tipo di interventi assistiti sono i cani: questo perché, tramite specifico addestramento, è possibile prepararli a restare concentrati anche in caso di mutamento delle condizioni del contesto. “Il cane permette di avere il completo controllo, e questo lo rende il più idoneo – conferma il dott. Fiore –- ma non si esclude in futuro che vengano fatti studi anche con altri animali”. L’approccio deve comunque essere multidisciplinare: “All’interno del team devono essere coinvolti etologi e veterinari, per certificare lo stato di salute dell’animale e ridurre quindi il rischio zoonotico, ma anche di personale formato ad hoc, che deve essere presente sempre e avere sotto controllo l’animale per garantire che tutto si svolga nella completa sicurezza, sia dell’animale che del paziente coinvolto”. 

I cani, quindi, devono superare dei test in termini di addestramento e dei tamponi effettuati su pelo e muso, per verificare che non siano vettori di batteri. 

L’umanizzazione delle cure e la gestione dello stress post traumatico

Proprio per la natura stessa dei reparti di rianimazione però, gli effetti benefici degli IAA sono da considerarsi fondamentali: “Molti pazienti mostrano in follow up una forte traumatizzazione legata alla stress sviluppato durante la permanenza in reparto: per questo implementare queste attività può aiutarli non solo a ridurre lo stress del ricovero, ma anche a facilitare il reinserimento in un contesto socio emotivo normale e a metabolizzare l’esperienza differentemente”. 

PREVENIRE LE CADUTE OSPEDALIERE: IL NUOVO STUDIO DEL POLICLINICO GEMELLI

Un progetto innovativo per prevenire il rischio di cadute dei pazienti e migliorare la gestione del rischio clinico. L’obiettivo di uno studio portato avanti dal Policlinico Gemelli di Roma prevede lo sviluppo di un albero decisionale che si affianchi alla scala di Conley e migliori la capacità di individuare i pazienti a rischio, utilizzando i dati già a disposizione del personale medico-infermieristico. Ecco in cosa consiste.

Cadute ospedaliere, cosa dice lo studio del Gemelli

Le cadute ospedaliere rappresentano uno dei più frequenti eventi avversi e sono un grave problema sia per la salute dei pazienti che per costi diretti e indiretti che provocano alle strutture: risarcimenti, prolungamento della degenza, preclusione di nuovi ricoveri e danni di immagine. I pazienti anziani e poli patologici sono maggiormente a rischio, così come quelli che provengono dal Pronto Soccorso (anche una volta entrati in degenza nei singoli reparti). 

“Al momento – spiega Vincenzo Maria Grassi, dirigente medico della UOS Risk Management del Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – il principale strumento di valutazione è la scala di Conley che identifica un paziente come ‘a rischio caduta’ con un punteggio pari o superiore a due, con la Letteratura che segnala una sensibilità del 60-69% e una specificità del 41-61%, valori deponenti per un potere predittivo positivo o negativo sostanzialmente limitato.

Ci siamo chiesti, perciò, se esistesse un modo per migliorare le capacità predittive delle strutture sanitarie, fornendo a medici e infermieri uno strumento più efficace per identificare i pazienti maggiormente a rischio senza, nello stesso tempo, aumentare il loro carico di lavoro.  L’obiettivo, dunque, è stato quello integrare i parametri già raccolti nella nostra cartella clinica digitale per affinare l’indicazione offerta dalla scala di Conley”. 

Da questa premessa è partito uno studio-controllo retrospettivo che ha analizzato la storia clinica di 216 pazienti, 108 con esperienza di caduta e 108 no, valutando i valori di altre tre scale: IDA (l’indice di dipendenza assistenziale); l’indice di Barthel (che misura autonomia della persona nelle attività quotidiane); e il BRASS (Blaylock risk assessment screening score). 

La domanda fondamentale dello studio è stata: possono i valori di queste tre scale essere utilizzati per affinare la predizione sui pazienti identificati a rischio dalla scala di Conley?

“Il risultato dello studio – che è, al momento, in attesa di pubblicazione su una rivista scientifica – è un albero decisionale di 9 livelli con domande dicotomiche che affrontano tutte le possibili variabili. Una valutazione sulla scala di Brass con valore superiore a 2 è un’indicazione generale di rischio, alla quale segue il percorso dell’albero decisionale”. 

“Gli elementi finora raccolti – conclude Grassi – indicano che esistono validi presupposti per continuare la ricerca e la sperimentazione. Puntiamo nel breve futuro a sviluppare un software capace di processare l’albero decisionale, incrociando i dati nella cartella digitale del Gemelli e offrendo ai clinici una predizione del rischio sempre più precisa”. 

CONFRONTO E NON CONFLITTO: COME STA CAMBIANDO IL MANAGEMENT NEL XXI SECOLO

Empatia, propensione all’ascolto ma anche competenze organizzative, mentorship e orientamento al risultato: queste le caratteristiche dei leader di domani. Giuseppe Carchedi racconta l’esperienza al Global Executive Master in Business Administration realizzato dalla SDA Bocconi e dalla Rotman School of Management dell’Università di Toronto.

Manager del XXI secolo, quali sono le competenze più richieste sul mercato?

La risposta di uno degli Executive Master in Business Administration più rilevanti a livello internazionale è duplice: non dimenticare mai la dimensione umana; non dimenticare mai la missione dell’azienda.

Due pilastri, una sola sintesi: “Da una parte, sapersi distaccare dalla propria prospettiva, calandosi nei panni dell’altro, dall’altra l’abilità di comprendere quando smettere di focalizzarsi sui soli dettagli per abbracciare una visione d’insieme e mantenere la rotta prefissata dalla compagnia” – afferma Giuseppe Carchedi, Head of Insurance Operations and Analytics del gruppo Relyens.

La capacità di superare la frizione tra idee diverse facendo sì che il confronto sia l’origine di una soluzione comune e non del conflitto: questo – a fianco di una preparazione tecnica e accademica di eccellenza – è il portato più profondo e duraturo del GEMBA.

Un corso esteso nell’arco di 18 mesi con 10 sessioni di circa una settimana ciascuna, ognuna in una località diversa tra Canada, India, Singapore, Brasile, Stati Uniti, Italia e Danimarca.

Giuseppe Carchedi, Head of Insurance Operations and Analytics del gruppo Relyens.

“Oltre alle lezioni frontali – spiega Carchedi – i partecipanti hanno dovuto affrontare più di 20 lavori di gruppo: progetti da redigere o business case da analizzare, cercando soluzioni comuni hanno innescato dinamiche nelle quali la linea tra il difendere le proprie posizioni e imporle agli altri diventa davvero molto sottile. Qui ho preso consapevolezza del ruolo del manager come mediatore, come agente di un confronto che non è scontro, capace di capire le posizioni altrui e tradurle in un linguaggio comprensibile a tutti, facendo sì che posizioni differenti convergano in un’unione di intenti, coerente e pragmatica”.

Di particolare interesse il modulo di “Change management” che ha portato ad esempio l’arrivo di Marchionne in Fiat. “Marchionne doveva cambiare tutto: progettazione, design, produzione, marketing di una multinazionale. Decise di partire dai servizi igienici e dagli spogliatoi per i lavoratori in fabbrica. Un’azione, più di qualsiasi discorso o annuncio, in grado di trasmettere ai propri dipendenti la concretezza del cambiamento, rendendoli partecipi fin dall’inizio. Quella che si chiama una Quick Win: un riscontro immediato che parta dagli individui”.

“Da troppi anni si è discusso delle aziende come se fossero delle macchine e rispondessero, perciò, a degli accorgimenti tecnici. Ma le aziende sono, a qualsiasi livello, delle comunità di persone e per funzionare bene devono basarsi su relazioni nutrienti e gratificanti”.

La sensibilità della nuova generazione di talenti e il rispetto per il singolo individuo che la caratterizza sta già veicolando questa nuova visione, ma la cultura aziendale è essenziale sia come oggetto sia come attore del cambiamento.

“Nel confronto con i miei colleghi, dalle diverse nazionalità, età e grado di esperienza, mi sono reso conto della fortuna di lavorare in un contesto come Relyens, soprattutto, per il supporto l’entusiasmo e l’incoraggiamento che mi hanno accompagnato per questi 18 mesi. L’investimento su di me come persona – prima ancora che come professionista – il rispetto del mio tempo e della mia serenità mentre acquisivo nuove competenze è stato assoluto”.

“Ogni volta che si parla di produttività e innovazione, si tende a pensare che siano obiettivi raggiungibili solo grazie a nuovi processi di lavoro e all’introduzione di soluzioni tecnologiche. Questi, però, sono solo strumenti. È partendo da basi di civiltà e dal rispetto per la persona che le aziende possono trovare l’energia per metterli a frutto al meglio raggiungendo un respiro e una strategia davvero internazionale e all’avanguardia”.