One Health: salute umana, animale e ambientale, un approccio integrato al risk management

L’approccio One Health rappresenta una modalità innovativa di affrontare le prossime sfide della salute globale. Questa visione dà il via a un importante cambio di paradigma, e sottolinea quanto l’interconnessione tra la salute umana, quella animale e quella dell’ambiente sia fondamentale. Vediamo in cosa consiste esattamente l’approccio One Health, e perché può essere vincente anche nel risk management. 

Cos’è l’approccio One Health: definizione, principi e storia

Come riporta l’Istituto Superiore di Sanità, One Health è un modello sanitario che si basa sull’integrazione di due principi fondamentali: l‘interconnessione tra salute umana, animale e ambientale, e l’intersezione di più discipline mediche. Il risultato è un metodo olistico che riconosce quanto la salute delle persone, degli animali e della nostra Terra siano strettamente legate: secondo questo approccio, per risolvere in maniera efficace un problema sanitario non è possibile focalizzare l’attenzione esclusivamente su un singolo aspetto ma occorre abbracciare una visione a 360° che contempli ogni elemento coinvolto.

La risoluzione dei problemi di sanità pubblica, quindi, non può prescindere da un’azione coordinata (che comprende anche una corretta interpretazione dei dati a nostra disposizione) e da un impegno collaborativo tra diverse professionalità coinvolte – dai medici ai biologi, dai veterinari agli esperti di alimentazione e agli agronomi. Il suo obiettivo principale è dunque quello di promuovere un’azione sinergica che possa garantire il benessere di tutti gli esseri viventi e dell’ambiente in cui essi vivono.

Le radici di One Health e la sua diffusione

La filosofia alla base dell’approccio One Health affonda le sue radici nel concetto di “one medicine”, un’idea proposta per la prima volta dal veterinario ed epidemiologo Calvin Schwabe negli anni ‘60. Schwabe riteneva che la medicina umana e quella veterinaria dovessero integrarsi per affrontare al meglio i problemi di salute pubblica, in particolare quelli legate alle malattie zoonotiche – ossia le malattie che, tramite il salto di specie, passano dagli animali agli esseri umani.

Negli ultimi decenni, questo concetto è stato ampliato per includere anche la salute ambientale, dando origine al moderno approccio One Health, che riconosce come la salute umana, animale e ambientale siano intimamente connesse.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’ente di riferimento per la sanità pubblica in Italia, ha preso a cuore l’approccio One Health, promuovendolo attivamente nei suoi programmi e nelle sue ricerche, con particolare attenzione alle zoonosi e alla resistenza antimicrobica.

Nel 2017, la Commissione Europea ha lanciato il Piano d’Azione One Health per combattere la resistenza antimicrobica, che rappresenta una grave minaccia per il benessere. Durante il Global Health Summit del 2021 tenutosi a Roma, i leader del G20 e di altri Stati, riuniti insieme ai capi delle organizzazioni internazionali, hanno individuato in One Health l’approccio vincente per affrontare i rischi a cui la sanità globale andrà incontro nei prossimi anni e fare tesoro di quanto appreso durante la pandemia di Covid-19.

Come l’approccio One Health può aiutare il risk management

L’approccio One Health, come abbiamo visto, trova applicazione in un’ampia varietà di settori, puntando alla massima protezione della salute del nostro pianeta e dei suoi abitanti. Riveste, pertanto, un ruolo fondamentale anche nel risk management del futuro. Nell’ambito di One Health, i rischi possono riguardare le malattie zoonotiche, la resistenza antimicrobica, l’inquinamento ambientale, le minacce alla sicurezza alimentare e molteplici altri elementi.

Un approccio di tipo olistico portato avanti anche da Relyens, applicando una metodologia basata su tre pilastri: l’analisi del rischio, la prevenzione e l’assicurazione.

  • Il primo passo del processo di gestione del rischio è sapere in cosa consiste. Relyens dedica grande attenzione all’identificazione e alla valutazione dei rischi potenziali, esaminando il contesto per comprendere meglio la natura e la portata di questi rischi. Tale passaggio preliminare è fondamentale per sviluppare strategie efficaci di gestione.
  • Il secondo pilastro del processo di gestione del rischio è la prevenzione. Dopo aver identificato e valutato i rischi, Relyens mette in atto una serie di misure per ridurne l’incidenza e l’impatto. Queste possono includere formazione, implementazione di protocolli di sicurezza, miglioramento delle pratiche operative, e molto altro ancora.
  • L’ultimo pilastro è l’assicurazione. Nonostante gli sforzi di analisi e prevenzione, può capitare che alcuni rischi rimangano. In tal caso, Relyens fornisce soluzioni di assicurazione personalizzate per coprire questi rischi residui. Queste possono aiutare a proteggere le organizzazioni e le persone da potenziali perdite finanziarie, fornendo una sicurezza finanziaria indispensabile.

Attraverso questo approccio integrato al risk management, Relyens contribuisce non solo a gestire il rischio, ma anche a creare un ambiente più sicuro e sano per tutti. Un modello di gestione immediato e sostenibile nel tempo che rafforza l’importanza del concetto di One Health, la cui implementazione su larga scala richiederà uno sforzo congiunto da parte di tutte le discipline e settori coinvolti, compreso quello del risk management. Le ricompense potenziali – in termini di miglioramento della salute umana, animale e ambientale – sono enormi.

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Gestione del rischio in ginecologia: un percorso integrato tra formazione, tecnologia e assicurazione

I reclami relativi ai reparti di ostetricia e ginecologia sono considerati tra i più seri nell’ambito del risk management, sia a causa del loro impatto emotivo su mamma e sul bimbo sia per i danni significativi che possono provocare alle strutture sanitarie coinvolte. Ci si può infatti trovare a gestire situazioni di rischio in cui gli operatori devono essere sempre pronti a svolgere la propria funzione rapidamente.

Approfondiamo cosa vuol dire occuparsi di gestione del rischio in ambito ginecologico.

La necessità di un approccio proattivo al risk management

Un sinistro grave, ancora di più se accade in ambito ginecologico, danneggia l’immagine dell’ospedale, oltre a compromettere il rapporto medico/paziente. Non solo: reclami ed eventi avversi hanno, in generale, un forte impatto sul benessere psicologico del personale sanitario. Uno studio condotto su Lancet Psychiatry ha evidenziato che, rispetto alla popolazione generale e ad altri gruppi professionali, i medici hanno una maggiore prevalenza di depressione, ansia e pensieri suicidi.

Storicamente, il risk management si è concentrato sulla gestione degli eventi avversi e sul rischio finanziario, cercando di scegliere l’opzione più vantaggiosa tra mantenere il rischio o stipulare una polizza assicurativa. Di recente, però, il concetto di gestione del rischio si è evoluto, adottando un approccio proattivo che mira a identificare le aree a rischio per prevenire gli eventi avversi, piuttosto che limitarsi a mitigare i danni una volta che questi si sono verificati.

Attraverso una visione multidisciplinare, è possibile individuare e correggere le aree di debolezza prima che gli eventuali problemi possano verificarsi. L’obiettivo del risk management moderno non è più solo ridurre i costi dei reclami, ma anche migliorare la sicurezza dei pazienti, riducendo il numero e l’impatto degli incidenti. E questo vale anche in ambito ginecologico.

Gestione del rischio in ginecologia: il ruolo della formazione e della sicurezza

Il parto in sé è un momento critico, e i rischi possono essere molti. Lo scopo di introdurre programmi formativi dedicati al personale sanitario è proprio quello di imparare a gestire lo stress, in particolare negli ospedali in cui il personale è meno preparato ad affrontare situazioni di emergenza legate alla nascita. 

Dedicare fondi per investire in formazione e tecnologia è fondamentale, ma come si può aumentare la sicurezza per le future mamme?
Gli approcci possibili sono due: uno reattivo, che si basa sull’analisi delle cause principali e l’analisi dei dati a disposizione. Sviscerare le cause di un sinistro è un metodo di problem-solving che individua le motivazioni reali dietro eventi avversi, fungendo da input le future per azioni correttive. È fondamentale che questa analisi avvenga il prima possibile: se un evento non viene prontamente riconosciuto, infatti, sarà più difficile identificare il problema all’origine del claim, perdendo l’opportunità di imparare dagli errori.

L’altro approccio, di tipo proattivo, basato sulla valutazione del rischio. Lo approfondiremo nel prossimo paragrafo.

Valutazione del rischio in ginecologia, l’importanza di un’alleanza tra ospedali 

La valutazione del rischio – in ogni ambito, compreso quello ginecologico – è un processo, spesso gestito da un ente esterno alla struttura sanitaria, che cerca di identificare e fornire raccomandazioni per mitigare o eliminare i rischi identificati. Tuttavia, i risultati di questo processo non vengono sempre utilizzati al massimo del loro potenziale: gli ospedali, da parte loro, possono essere riluttanti a lasciare che una compagnia di risk management controlli le loro procedure, le politiche aziendali e la cultura organizzativa.

Gli assicuratori, inoltre, non vengono sempre considerati come partner credibili nelle discussioni scientifiche. Questo pregiudizio può avere ripercussioni sulla sicurezza dei pazienti e sulla qualità delle cure, ostacolando i processi che potrebbero ridurre il numero di reclami e, di conseguenza, il valore dei premi assicurativi.

Il risk management deve quindi evolvere: da uno strumento di risparmio a uno destinato a liberare fondi per gli investimenti. Questo approccio, adottato quotidianamente in Relyens, è l’unico modo per ottenere risultati nell’ambiente ginecologico sanitario. I risk manager hanno un ruolo chiave nel contribuire all’analisi dei dati raccolti.

Questa la modalità che consente agli ospedali di imparare dagli errori e dagli eventi avversi, creando una nuova sinergia tra sanità e assicurazione, prerequisito per ristabilire la fiducia nell’alleanza terapeutica.

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Ricostruzione dei sinistri, il valore aggiunto della cogestione tra Sanità piemontese e Assicurazione

Un caso reale di risarcimento sanitario mette in risalto i vantaggi del confronto diretto, anche prima del CVS, che contraddistingue la collaborazione tra le ASL e gruppo Relyens, Risk Manager e assicuratore della sanità regionale piemontese.
Abbiamo intervistato Marta Ravotto, Loss Adjuster e membro dei Comitati Valutazioni Sinistri, per spiegarci cosa è accaduto e in che modo la procedura di ricostruzione sinistri è stata efficace.

Ricostruzione sinistri, il caso del Piemonte

“Ci siamo trovati ad affrontare un sinistro delicato: un caso di gravi lesioni, poi esitato in decesso, su una giovane paziente, che i congiunti imputavano a negligenza nella gestione dell’emergenza e quindi un colpevole ritardo nelle cure. In questo caso l’obiettivo era comporre la vertenza tutelando la dignità professionale dell’Azienda sanitaria e dei medici coinvolti” inizia Ravotto. 

“Il gruppo Relyens è l’assicuratore della sanità regionale piemontese con una polizza RCT/O e il meccanismo del drop down. Per queste ragioni e per la filosofia mutualistica nella quale affonda le sue radici, il gruppo affianca le ASL piemontesi nell’intero processo di gestione dei sinistri superiori a 5mila euro, lavorando quotidianamente a fianco dei diversi professionisti sanitari nei percorsi decisionali legati alla richiesta di risarcimento e, successivamente, alle azioni di miglioramento e mitigazione del rischio che possono nascere dall’analisi degli eventi avversi” spiega. “Nel caso specifico, abbiamo ritenuto opportuno incontrare attorno ad un tavolo i medici legali, gli avvocati e gli incaricati dell’Azienda sanitaria oltre agli stessi medici coinvolti nella richiesta di risarcimento, i quali ci hanno fornito validi spunti di riflessione. È stato proprio da questo confronto in presenza e dalle informazioni scambiate che è nata una proposta transattiva molto favorevole all’azienda che è stata, poi, accettata dai ricorrenti”.

Per un approfondimento su drop down e cogestione dei sinistri, leggi l’intervista a Fabrizio Ferrando, Direttore SC Processi Amministrativi Generali e di Approvvigionamento.

I vantaggi della cogestione in caso di sinistro 

Le procedure di cogestione portano innegabili vantaggi nei casi in cui vanno ricostruite le dinamiche di un caso di sinistro: la comunicazione tra le parti diventa fondamentale per chiarire la successione degli eventi, il loro sviluppo e la loro successione. 

“Il primo vantaggio è la ricostruzione del contesto nel quale il danno si è verificato” dice Ravotto. “L’incontro e lo scambio personale permettono di delineare gli elementi tangibili e intangibili che influiscono sul sinistro ma non compaiono in cartella clinica. Per esempio: come reagivano il paziente o i familiari alle comunicazioni dei sanitari; se c’erano emergenze in atto che richiedevano l’attenzione dei terapeuti o se medici o infermieri erano eccezionalmente stanchi o provati per qualche ragione. In questo processo di ricostruzione è particolarmente importante il rapporto con i medici legali interni alla struttura assicurata che conoscono la realtà e possono contribuire ad arricchire l’analisi delle loro colleghi chiamati come consulenti esterni” sottolinea Ravotto.  

“Il secondo vantaggio è che questa conoscenza dettagliata permette all’assicuratore di mantenere un punto di vista distaccato, arricchendolo, però, con la comprensione delle dinamiche e delle eventuali criticità e punti deboli della struttura partner. Una conoscenza che non solo informa utilmente la strategia di gestione del singolo sinistro ma è anche, non di rado, un’occasione per suggerire percorsi di miglioramento che mirano a ridurre il rischio che l’evento avverso si ripeta” commenta Ravotto. 

“L’abitudine all’incontro e allo scambio di informazioni crea, inoltre, prassi virtuose come abbiamo visto instaurarsi in occasione dei claim legati alle infezioni nosocomiali. La richiesta da parte dell’assicuratore di informazioni dettagliate – le uniche forme documentali che possono alleggerire la posizione dell’ASL in giudizio – ha spinto le strutture sanitarie a raccogliere tali informazioni in anticipo e con crescente frequenza e dettaglio. 

“Le occasioni di confronto permetto una progressiva ‘disseminazione’ di saperi e competenze tra Asl e gruppo Relyens: alle competenze tipiche di un’assicurazione nella gestione sinistri, negli orientamenti giurisprudenziali e nella casistica medico-legale, si integrano la focalizzazione dei nostri risk manager sulla prevenzione e gestione del rischio, e la comprensione dei professionisti sanitari per le dinamiche di reparto e la realtà sul campo. I Loss adjuster come me sono al centro di questo scambio, operando con le loro competenze di gestione e mediando lo scambio multidisciplinare tra le altre professionalità” chiarisce Ravotto.

“Infine” conclude “vorrei sottolineare un quinto valore aggiunto della cogestione dei sinistri in Piemonte: l’incontro con i medici coinvolti nella richiesta di risarcimento. La Regione permette, infatti, ai sanitari che ne facciano richiesta di partecipare ai Comitati sovra zonali di Valutazione Sinistri e questo confronto porta, spesso, conoscenze utili a completare la ricostruzione del sinistro. Talvolta, l’incontro avviene addirittura prima del CVS e sono queste, sulla base della mia esperienza, le occasioni più fruttuose perché permettono di raccogliere le informazioni in anticipo e integrarle tempestivamente nella proposta che verrà presentata, già definita, al Comitato”.

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Legge Gelli Bianco e un sistema sostenibile di responsabilità sanitaria

Un parterre di relatori d’eccezione, provenienti da esperienze e settori di competenza diversi, si è ritrovato in Senato in occasione di un convegno dedicato a raccogliere spunti, riflessioni e proposte di implementazione sulla legge 24/2017, nota come Legge Gelli Bianco che ha introdotto per le strutture sanitarie l’obbligo di assicurazione e quello di dotarsi di servizi di risk management.
“La legge nasce con la più nobile delle intenzioni, ovvero quella di tutelare il danneggiato – ha commentato Diego Ammirabile, Head of Claims Relyens – A sei anni dalla sua introduzione, tuttavia, nella sua applicazione emergono delle lacune e delle problematiche che rischiano di mettere in secondo piano tale intento”.

Cosa è emerso dal convegno

Il convegno, promosso su iniziativa del Senatore Antonio Guidi e in collaborazione con la Società Medico-Giuridica Melchiorre Gioia,  tenutosi presso la Sala Zuccari mercoledì 28 giugno, ha visto la partecipazione di diversi attori coinvolti.

Molti i contributi e le testimonianze in interventi complementari, che hanno restituito una solida e tecnica ricostruzione del quadro normativo che volge a tutelare integralmente sia le strutture sia gli operatori sanitari, tenendo sempre il focus sul risarcimento del danneggiato.

“Il convegno è stato un vero e proprio incubatore di idee, una analisi di diritto costituzionale, tecnica e non politica – ha commentato ancora Ammirabile – Gli interventi, concentrandosi su dati e limiti della legge, hanno sollevato all’unanimità come sia urgente colmare una contraddizione su tutte: se da una parte è necessario avvicinare il rapporto tra vittima, istituzioni e ospedali, è altrettanto urgente ridurre la disparità di trattamento tra strutture auto assicurate e non, che nella realizzazione stride in maniera molto forte con lo spirito e il senso della legge”.

Punti di attenzione della legge Gelli Bianco sulla responsabilità sanitaria

Il sistema misto, infatti, legittima i diversi binari della responsabilità in ambito sanitario: da un lato quella contrattuale, a carico delle strutture sia pubbliche che private, e dei medici, dall’altro l’extracontrattuale, rivolta a chi svolge la professione sanitaria in una struttura o in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. 

In particolare, a marcare uno squilibrio tra strutture assicurate ed auto assicurate è il Fondo di Garanzia per i danni derivanti dalla responsabilità sanitaria, istituito dalla medesima legge al fine di garantire i risarcimenti laddove venga a mancare la copertura assicurativa, o questa sia inferiore al risarcimento dovuto. Come ha commentato Ammirabile, “sebbene sia estremamente importante la sua presenza poiché tutela la vittima del sinistro, porta inevitabilmente a una disparità di contribuzione”.

“Sarebbe necessario, infatti, – ha aggiunto Delia Roselli, Legal and Compliance Manager di Relyens – che anche le strutture auto assicurate intervenissero al foraggiamento del fondo seppur in maniera proporzionale. Non solo: il rischio ulteriore è che, vista la contribuzione e gli alti livelli di tassazione, i maggiori player di qualità si allontanino dal mercato, e con loro le competenze d’eccellenza”.

Il contributo e la visione di Relyens

Convegni così importanti, che vedono Relyens centrale non solo come attore, ma anche come soggetto di parola sul tema, sottolineano l’importanza di costruire e diffondere una cultura del rischio che diventi veicolo anche di prevenzione. Un percorso in cui l’assicuratore assume un ruolo centrale.

“La figura dell’assicuratore è ancora oggi inquinata da scetticismo e sospetto, oltre che spesso limitata alle garanzie di natura finanziaria – commenta ancora Ammirabile – nella visione di Relyens, si tratta invece di un ruolo centrale che promuove best practice e contribuisce alla gestione ottimale del Risk management, ponendosi a garanzia e tutela di tutti gli attori in campo, al fine non solo di ottenere una risoluzione dei sinistri equa e giusta, ma anche per ridurre complessivamente il rischio del mercato”.

“Promuoviamo sicuramente l’innovazione in termini di linee guida e regolamentazioni quantitative e qualitative sul tema dell’autoassicurazione e della contribuzione al Fondo di Garanzia – ha aggiunto Delia Roselli, Legal and Compliance Manager presso Relyens – Si tratta ancora di un sistema che ha ripreso il modello delle RCA, ma che necessita di integrazioni e migliorie che lo rendano pienamente coerente e adeguato al settore sanitario, in modo da implementare al meglio il sistema della responsabilità civile medica. È una richiesta evidente e che deve essere colmata al prima possibile”.

Partecipare ad incontri di tale livello e spessore conferma l’importaza della creazione di un dialogo tra istituzioni e attori del settore: solo attraverso il confronto con i professionisti del settore è possibile, infatti, intercettare le soluzioni milgiori per potenziare una sanità sempre più sicura e quindi di qualità. Creare sinergie positive e soprattutto costruttive è infatti ciò che guida Relyens da sempre nella creazione di progetti e servizi che contribuiscano a creare una solida cultura del rischio all’interno del nostro Paese.

Pet Therapy, Portare gli animali in terapia intensiva per umanizzare ancor di più le cure: lo studio SIAARTI ne conferma i benefici

Gli effetti benefici della pet therapy sono largamente riconosciuti: l’interazione con animali, infatti, aiuta la produzione di endorfine, e conseguentemente induce la riduzione dei livelli di stress e di percezione del dolore, oltre ad avere effetti positivi sul sistema cardio circolatorio, cognitivo e di riabilitazione fisica. Si può quindi affermare che gli outcome siano positivi sia in termini biochimici che clinici. Il team di Gestione del Rischio Clinico della Società Italiana di Anestesia e Rianimazione (SIAARTI)  ha deciso di indagare sulle possibilità di implementare gli interventi con la mediazione degli animali all’interno dei reparti di terapia intensiva, pubblicando una revisione sistematica della letteratura. Vediamo insieme al primo firmatario, dottor Marco Fiore, cosa è emerso dallo studio e quali sono i benefici della pet therapy in un’ottica di umanizzazione delle cure.

Il quadro normativo di riferimento per la pet therapy in Italia 

Al momento, il riferimento legislativo che norma gli IAA (Interventi Assistiti con gli Animali) è l’accordo del 6 febbraio 2003 stretto tra il Ministro della Salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano in materia di benessere degli animali da compagnia e Pet Therapy. Tale documento, tra le altre cose, attribuisce alle Regioni e Province autonome il compito di agevolare a ampliare le iniziative clinico- terapeutiche coinvolgendo animali domestici al fine di “agevolare il mantenimento del contatto delle persone, anziani e bambini in particolare, siano esse residenti presso strutture residenziali, quali case di riposo e strutture protette, o ricoverate presso Istituti di cura, con animali da compagnia utilizzabili per la pet-therapy”.

La nascita di questo particolare tipo di terapia viene attribuita all’intuizione del neuropsichiatra infantile Boris Levinson nel 1953, che notò come uno dei bambini autistici che aveva in cura mostrasse risultati più positivi dopo e durante l’interazione con il cane del dottore. 

Dal 2003 in poi, molti reparti ospedalieri sono stati aperti agli IAA soprattutto con pazienti pediatrici e di declino cognitivo. Non è stata invece svolta altrettanta ricerca e sperimentazione per quanto concerne le terapie intensive. 

Umanizzare le cure grazie alla presenza degli animali: cosa emerge dallo studio

All’interno dello studio “Risk and benefits of animal-assisted interventions for critically ill patients admitted to intensive care units”, di cui primo firmatario è il dott. Marco Fiore, sono state revisionate ben 1302 pubblicazioni. Di queste, solamente 6 indagavano l’utilizzo degli IAA in terapie intensive di rianimazione, e 5 di questi ne registravano i benefici. 

Allargando il setting anche a contesti ambulatoriali e pediatrici, ne risulta che i benefici derivanti dalle IAA sono molteplici. Si notano, ad esempio, netti miglioramenti nella gestione dell’ansia, nella percezione del dolore, ma anche nella riabilitazione, poiché la presenza dell’animale può essere di stimolo alle attività di riabilitazione fisica, oltre che al reinserimento in un contesto socio emotivo positivo e piacevole. “È stato appurato, ad esempio, che l’interazione con un acquario ha il potenziale per migliorare il benessere umano dei pazienti, e migliorare l’attenzione dei pazienti con declino cognitivo (morbo di Alzheimer), anche se la ricerca su questo argomento è attualmente limitata” racconta il dottor Fiore. 

Anche in campo riabilitativo, la presenza e l’interazione con animali è confermata essere uno stimolo a percorrere distanze più lunghe e affrontare gli sforzi fisici, soprattutto in caso di soggetti sottoposti a interventi cardiaci. 

Il rischio di zoonosi

La maggioranza degli studi, però, non esploa l’utilizzo di tali tecniche all’interno delle Terapie intensive. 

“I reparti di rianimazione del nostro Paese sono molto più chiusi rispetto a quelli del Nord Europa anche perché vi è una forte e diffusa antibiotico resistenza: il rischio quindi che un animale possa essere vettore di un batterio e che questo possa compromettere lo stato di salute di un paziente già in condizioni critiche disincentiva queste iniziative” spiega ancora il dott.Marco Fiore.

Ecco perché uno degli obiettivi principali della revisione sistematica della letteratura effettuata dal team è stato proprio quello di indagare il rischio zoonotico in terapia intensiva, ovvero la possibilità che l’animale trasmetta, direttamente o indirettamente, dei batteri. “Non è stato possibile esplorare l’outcome, poiché si tratta di un elemento non pervenuto all’interno della letteratura revisionata” conferma il dottor Fiore, sottolineando la necessità di condurre studi approfonditi e ad hoc proprio su questo tema al fine di costruire un protocollo condiviso e implementabile. 

“Vi sono sicuramente delle limitazioni oggettive agli IAA all’interno della terapia intensiva, oltre al rischio zoonotico: la gestione degli spazi, ad esempio, poiché molti pazienti sono collegati a macchinari e sono quindi sottoposti a un movimento limitato; un altro aspetto da considerare è legato al tempo, che in terapia intensiva è un fattore estremamente variabile e non controllabile. Da un momento all’altro le condizioni di un paziente possono aggravarsi e per questo, alcuni interventi non  possono essere calendarizzati come invece avviene  in ambiente ambulatoriale”.

I cani, alleati della pet therapy in terapia intensiva

Gli animali prediletti per questo tipo di interventi assistiti sono i cani: questo perché, tramite specifico addestramento, è possibile prepararli a restare concentrati anche in caso di mutamento delle condizioni del contesto. “Il cane permette di avere il completo controllo, e questo lo rende il più idoneo – conferma il dott. Fiore –- ma non si esclude in futuro che vengano fatti studi anche con altri animali”. L’approccio deve comunque essere multidisciplinare: “All’interno del team devono essere coinvolti etologi e veterinari, per certificare lo stato di salute dell’animale e ridurre quindi il rischio zoonotico, ma anche di personale formato ad hoc, che deve essere presente sempre e avere sotto controllo l’animale per garantire che tutto si svolga nella completa sicurezza, sia dell’animale che del paziente coinvolto”. 

I cani, quindi, devono superare dei test in termini di addestramento e dei tamponi effettuati su pelo e muso, per verificare che non siano vettori di batteri. 

L’umanizzazione delle cure e la gestione dello stress post traumatico

Proprio per la natura stessa dei reparti di rianimazione però, gli effetti benefici degli IAA sono da considerarsi fondamentali: “Molti pazienti mostrano in follow up una forte traumatizzazione legata alla stress sviluppato durante la permanenza in reparto: per questo implementare queste attività può aiutarli non solo a ridurre lo stress del ricovero, ma anche a facilitare il reinserimento in un contesto socio emotivo normale e a metabolizzare l’esperienza differentemente”. 

CONFRONTO E NON CONFLITTO: COME STA CAMBIANDO IL MANAGEMENT NEL XXI SECOLO

Empatia, propensione all’ascolto ma anche competenze organizzative, mentorship e orientamento al risultato: queste le caratteristiche dei leader di domani. Giuseppe Carchedi racconta l’esperienza al Global Executive Master in Business Administration realizzato dalla SDA Bocconi e dalla Rotman School of Management dell’Università di Toronto.

Manager del XXI secolo, quali sono le competenze più richieste sul mercato?

La risposta di uno degli Executive Master in Business Administration più rilevanti a livello internazionale è duplice: non dimenticare mai la dimensione umana; non dimenticare mai la missione dell’azienda.

Due pilastri, una sola sintesi: “Da una parte, sapersi distaccare dalla propria prospettiva, calandosi nei panni dell’altro, dall’altra l’abilità di comprendere quando smettere di focalizzarsi sui soli dettagli per abbracciare una visione d’insieme e mantenere la rotta prefissata dalla compagnia” – afferma Giuseppe Carchedi, Head of Insurance Operations and Analytics del gruppo Relyens.

La capacità di superare la frizione tra idee diverse facendo sì che il confronto sia l’origine di una soluzione comune e non del conflitto: questo – a fianco di una preparazione tecnica e accademica di eccellenza – è il portato più profondo e duraturo del GEMBA.

Un corso esteso nell’arco di 18 mesi con 10 sessioni di circa una settimana ciascuna, ognuna in una località diversa tra Canada, India, Singapore, Brasile, Stati Uniti, Italia e Danimarca.

Giuseppe Carchedi, Head of Insurance Operations and Analytics del gruppo Relyens.

“Oltre alle lezioni frontali – spiega Carchedi – i partecipanti hanno dovuto affrontare più di 20 lavori di gruppo: progetti da redigere o business case da analizzare, cercando soluzioni comuni hanno innescato dinamiche nelle quali la linea tra il difendere le proprie posizioni e imporle agli altri diventa davvero molto sottile. Qui ho preso consapevolezza del ruolo del manager come mediatore, come agente di un confronto che non è scontro, capace di capire le posizioni altrui e tradurle in un linguaggio comprensibile a tutti, facendo sì che posizioni differenti convergano in un’unione di intenti, coerente e pragmatica”.

Di particolare interesse il modulo di “Change management” che ha portato ad esempio l’arrivo di Marchionne in Fiat. “Marchionne doveva cambiare tutto: progettazione, design, produzione, marketing di una multinazionale. Decise di partire dai servizi igienici e dagli spogliatoi per i lavoratori in fabbrica. Un’azione, più di qualsiasi discorso o annuncio, in grado di trasmettere ai propri dipendenti la concretezza del cambiamento, rendendoli partecipi fin dall’inizio. Quella che si chiama una Quick Win: un riscontro immediato che parta dagli individui”.

“Da troppi anni si è discusso delle aziende come se fossero delle macchine e rispondessero, perciò, a degli accorgimenti tecnici. Ma le aziende sono, a qualsiasi livello, delle comunità di persone e per funzionare bene devono basarsi su relazioni nutrienti e gratificanti”.

La sensibilità della nuova generazione di talenti e il rispetto per il singolo individuo che la caratterizza sta già veicolando questa nuova visione, ma la cultura aziendale è essenziale sia come oggetto sia come attore del cambiamento.

“Nel confronto con i miei colleghi, dalle diverse nazionalità, età e grado di esperienza, mi sono reso conto della fortuna di lavorare in un contesto come Relyens, soprattutto, per il supporto l’entusiasmo e l’incoraggiamento che mi hanno accompagnato per questi 18 mesi. L’investimento su di me come persona – prima ancora che come professionista – il rispetto del mio tempo e della mia serenità mentre acquisivo nuove competenze è stato assoluto”.

“Ogni volta che si parla di produttività e innovazione, si tende a pensare che siano obiettivi raggiungibili solo grazie a nuovi processi di lavoro e all’introduzione di soluzioni tecnologiche. Questi, però, sono solo strumenti. È partendo da basi di civiltà e dal rispetto per la persona che le aziende possono trovare l’energia per metterli a frutto al meglio raggiungendo un respiro e una strategia davvero internazionale e all’avanguardia”.

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SAVE THE DATE: DEFINIRE LA LEADERSHIP IN SANITÀ

Il 1° Aprile 2022 il convegno SIMM Piemonte per tracciare, dopo l’esperienza del COVID e alla luce del PNRR, i contorni delle Human Essential Skill necessarie per costruire una sanità più forte, agile, e capace di decidere per il bene pubblico

Leadership in sanità: cos’è e come farla crescere?

Questa è la domanda alla quale si risponderà nel convegno The Changes We Need, organizzato dalla sezione piemontese della Società italiana di Leadership e Management in Medicina Venerdì 1° aprile dalle 08:30 alle 18:00 presso l’hotel San Rocco – Orta San Giulio, in provincia di Novara.  

 “Complex problem solving; gestione delle persone; creatività; pensiero critico; intelligenza emotiva e capacità di coordinarsi con gli altri; ecco quali sono le capacità fondamentali individuate dal World Economic Forum 2020: le Human Essential Skills. Scopo del convegno – spiega Arabella Fontana, responsabile scientifica e Direttore Medico del Presidio Ospedaliero Borgomanero ASL “NO” di Novara, – è di definire in che misura queste capacità possono essere applicate e crescere in sanità”.  

 Due eventi rendono il dibattito sulla leadership strettamente attuale: IL COVID E il PNRR.  

 “In particolare, è opportuno definire l’orizzonte di una leadership nel campo della sanità digitale, leadership che può contribuire a costruire un sistema pienamente integrato tra territorio e ospedale (coprendo le molte mancanze in questo campo ancora non sanate) e di cogliere le opportunità della telemedicina che il COVID ha reso evidenti”.   

 “COVID – conclude Fontana – che ci lascia in eredità anche molte lezioni positive come l’importanza dell’empatia, del lavoro in team, dell’agilità di trovare nuove soluzioni organizzative. Consapevolezze che ci possono rendere professionisti sanitari più forti, più flessibili e più orgogliosi di far parte del Servizio sanitario nazionale. E che ci possono insegnare a non aver paura di scegliere, quando è arrivato il momento, come leader, di farlo”. 

Per maggiori informazioni, scarica il PDF

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LA COMUNICAZIONE COME STRUMENTO DI SICUREZZA

Venerdì 4 ora 17:00 l’intervista alla RM Anna Guerrieri sulla leva per prevenire il contenzioso

“Il 70% degli eventi sentinella, ovvero eventi avversi gravi e potenzialmente evitabili, segnalati dalle organizzazioni sanitarie americane tra il 1995 e il 2005, sono associati a un fallimento della comunicazione tra i professionisti coinvolti”[1].

E l’importanza della comunicazione non si risolve nel lavoro di equipe, estendendosi alla relazione tra persone e struttura sanitaria, diventando un elemento cardine della relazione di cura.

Da qui partirà, venerdì 4 marzo dopo le 17, l’intervista ad Anna Guerrieri, Risk Manager Sham Italia, da parte di Maria Teresa D’Aquino

La Comunicazione per la prevenzione del Contenzioso: una leva per l’efficienza sarà il tema della discussione.

L’occasione è il corso STATI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE PER LA SALUTE, organizzato da FEDERSANITÀ con il patrocinio di ISS, AGENAS, Formez PA, ANCI, Ordine dei Giornalisti, Fondazione Innovazione Sicurezza in Sanità e la collaborazione di PA Social, l’associazione nazionale per la nuova comunicazione. 

STATI GENERALI DELLA COMUNICAZIONE PER LA SALUTE è previsto il 4 e 5 Marzo 2022. 

ll Corso dà diritto a 8 crediti ODG di cui 2 deontologici.  Scopri di più ed iscriviti seguendo questo LINK


[1] L’analisi a priori del rischio sanitario in Regione Piemonte: applicazione del metodo Cartorisk sull’area materno-infantile – Alberto Sardi, Enrico Sorano, Letizia Agostini, Anna Guerrieri, Mirella Angaramo, Franco Ripa. MECOSAN – ISSN 1121-6921, ISSNe 2384-8804, 2020, 114

“IL POTERE DEI DATI PER LA SALUTE” IL NUOVO INCONTRO DI WOMEN&TECHNOLOGIES

Vivere in quello che viene chiamato il “decennio digitale” pone i sistemi organizzativi in una condizione di miglioramento che può essere possibile solo usufruendo dell’enorme quantità di dati che circolano nei diversi settori. Anche in sanità, l’utilizzo dei dati sembra essere il punto di svolta per una nuova medicina dal carattere “proattivo e personalizzato”

Al giorno d’oggi tutti i sistemi organizzativi sono sommersi da un’enorme quantità di dati, tantissime informazioni che vengono gestite da una poca conoscenza nel campo.

Per questo risulta essere estremamente importante comprendere i processi di trasformazione dei dati in informazioni e quindi in conoscenza, poiché è proprio quest’ultima che permette di prendere decisioni ponderate.

Mercoled’ 16 febbraio 2022 si è tenuto l’incontro online di Women&Technologies dal titolo “Il potere dei dati per la salute” moderato dall’Avv. Paola Sangiovanni e in cui hanno preso parte importanti personalità femminili nell’ambito giuridico e medico a livello internazionale.

Madrina dell’evento l’Onorevole Patrizia Toia, membro del Parlamento Europeo.

Viviamo in quello che viene considerato, dall’UE, il “decennio digitale”, momento in cui emerge il tema di una sanità che sia europea soprattutto nell’offerta dei servizi e della qualità.

Il progetto “EU for Health” rappresenta l’esigenza della nascita di competenze che siano condivise sia per affrontare periodi di crisi, sia per migliorare la salute di tutti i cittadini europei.

Proprio per questo motivo, l’Europa si concentra sempre di più sulla salute e punta la sua attenzione sulla creazione di una competenza che non sia sostitutiva a quella di ciascun stato membro, ma che sia di accompagnamento e che porti alla crescita nel digitale.

Ma l’utilizzo dei dati in sanità comporta non pochi problemi, soprattutto per quanto concerne la lor sensibilità e utilizzo, da qui la previsione della creazione di un codice di condotta unico e condiviso.

Come introdotto da Paola Testori Coggi, consigliere scientifico presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) e Special Advisor del Cluster Tecnologico Nazionale Scienze della Vita Alisei, membro della Delegazione italiana nel Comitato di Programma di Horizon Europe-Cluster Health e Lead Co-Chair della Task Force “Global Health and Covid-19” del T20 Italia. È Ambassador della Federated Innovation a MIND – Milano Innovation District, Insegna EU Health Policy al Master in Studi europei del Collegio Europeo di Parma, l’Unione Europea è, ad oggi, la prima a livello mondiale ad aver fissato lo standard sulla regolamentazione della protezione dei dati nel 2018, cercando di rendere i dati usufruibili per l’economia e per la società ma tutelando l’individuo, che resta sempre padrone delle proprie informazioni.

Per tale motivo, si è creato un regolamento dal nome “Data Governance Act” che ha come scopo principale il poter dare alla società la capacità di usufruire dei propri dati personali.

Si basa su quattro pilastri fondamentali, quali: l’utilizzo dei dati nella pubblica amministrazione, la regolamentazione di intermediari indipendenti e neutrali, l’altruismo dei dati e delle informazioni messe a disposizione del bene comune e l’interoperabilità e il coordinamento delle informazioni.

Il fine ultimo dell’EU è quello di creare un regolamento specifico al fine di poter rendere fruibili i dati provenienti da tutti i 27 paesi al fine di migliorare la ricerca in qualsiasi ambito, ma più specificamente in quello medico.

Dalla condivisione dei dati emerge sicuramente un nuovo modo di fare medicina, come introduce la Professoressa Maria Pia Abbracchio, professore ordinario di farmacologia e responsabile di un gruppo di ricerca di 12 scienziati presso la Statale di Milano e detenente di numerose cariche e riconoscimenti internazionali.

La scienza, con la digitalizzazione, ha cambiato il suo approccio: non si parte più da un’ipotesi ben precisa, ma da una serie di dati integrati e condivisi che derivano da tantissime forme diverse di fonti che vengono, poi, studiate con una tipologia di analisi senza preconcetti che tende a cercare correlazioni anche fra dati estremamente diversi e che vanno a generare nuove ipotesi.

Da qui nasce una nuova tipologia di medicina chiamata “Network Medicine” in cui grazie allo studio intrecciato di dati inerenti a diverse patologie e utilizzo di farmaci, si possono creare profilassi che vadano bene per diversi casi specifici.

La digitalizzazione ha portato anche importanti trasformazioni a livello ospedaliero. Elena Bottinelli, Head of innovation and digitalization del Gruppo San Donato e Amministratore Delegato ospedale Villa Erbosa e Casa di Cura Villa Chiara Bologna. amministratore delegato dell’Ospedale San Raffaele e dell’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, indica questa trasformazione come uno dei fattori principali che ha portato alla riorganizzazione ospedaliera degli ultimi anni.

Ci si muove sempre di più verso un modello che lei identifica come “Figital”, ossia fisico e digitale, con l’obiettivo di migliorare l’accesso dei pazienti al sistema sanitario, rendendo la medicina non più reattiva ma proattiva e personalizzata.

Naturalmente ci sono delle difficoltà, che vengono poi riscontrate in tutti gli ambiti, come ad esempio l’interoperabilità dei dati e la mancanza di formazione da parte del personale medico e sanitario. Da qui la necessità di disegnare nuovi percorsi di cura con i pazienti che diventano parte attiva dell’organizzazione ospedaliera, ma soprattutto l’esigenza di creare nuove competenze digitali nel personale delle strutture.

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COVID E BURN-OUT: COME IL PERSONALE SANITARIO REAGISCE AI RISCHI DELLA PANDEMIA

Reparti sovraffollati, una gestione organizzativa messa alle strette dal numero degli ammalati. Da due anni il personale sanitario combatte in prima linea il Covid-19 con orari lavorativi massacranti ed incertezza rispetto al termine dell’emergenza, così il burn-out prende il sopravvento

Il disagio psicologico del personale sanitario durante la pandemia da Covid-19. Ne parla il Professore Antonio Lasalvia docente di Psichiatria del Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento dell’Università di Verona, autore della ricerca ““The Sustained Psychological Impact of the COVID-19 Pandemic on Health Care Workers One Year after the Outbreak—A Repeated Cross-Sectional Survey in a Tertiary Hospital of North-East Italy”, pubblicato sulla rivista International Journal of Environmental Research and Public Health, che ha esaminato l’impatto psicologico subito dal personale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata (AOUI) di Verona

  • Quale è stata la causa scatenante l’interesse per la tematica su cui si concentra la ricerca?

La ricerca è nata nel marzo del 2020, durante la prima ondata della pandemia. Il Veneto e la Lombardia sono state le prime regioni ad essere colpite da questo male sconosciuto riportando i primi focolai di quella che sarebbe, poi, stata una pandemia disastrosa per il nostro paese. Gli ospedali si sono messi in prima linea per fronteggiare le terapie intensive sovraccaricate e i decessi giornalieri. In quel periodo, insieme con alcuni colleghi dell’Ospedale Policlinico di Verona, mi è venuta l’idea di valutare gli effetti di ciò che stava succedendo nelle strutture sanitarie, nonostante, ai tempi, non avessimo ancora compreso l’entità di ciò che stava accadendo: non c’erano protocolli di nessun genere, mancavano i dispositivi di protezione individuale, mancava la conoscenza minima di una prassi condivisa per affrontare il Covid-19.

Tra marzo e aprile del 2020 abbiamo impiantato questo studio utilizzando dei questionari che sono stati fatti girare nell’azienda ospedaliera e compilati on-line in anonimato: ansia post-traumatica, ansia generalizzata, stress da lavoro, depressione, burn-out è stato ciò che abbiamo indagato tramite le domande.

  • Quali sono i disagi maggiormente percepiti dal personale sanitario in base ai risultati dei questionari?

Inizialmente abbiamo valutato quale è stato l’impatto del Covid-19 nel 2020 ed il risultato è stato individuato in un’elevata prevalenza di stress post-traumatico e ansia generalizzata, in particolare negli infermieri, e soprattutto di quelli che lavoravano nelle terapie intensive e nei reparti sub-intensivi Covid.

Abbiamo, poi, ripetuto i questionari a distanza di un anno, quindi a marzo ed aprile del 2021, per comprendere se la situazione fosse o meno migliorata, considerando che in un anno la medicina aveva fatto passi da gigante nella gestione della pandemia, nonostante la seconda e terza ondata della malattia.  Dopo un anno, la situazione è risultata essere ancor peggiore, non tanto in termini di paura e preoccupazione, quanto in termini di un logoramento da iper-lavoro, assenza di riposo, mancata capacità da parte del sistema di gestire la situazione sul lungo termine. 

Ciò che è emerso sono sintomi di depressione, esaurimento emotivo e burn-out, dove quest’ultimo rappresenta il rischio psicologico lavoro correlato più pericoloso, in quanto il lavoratore sviluppa un totale rifiuto verso la propria occupazione e nel caso delle professioni di aiuto, come appunto medici e infermieri, verso i pazienti.

Il burn-out è una situazione molto complicata da gestire, la qualità delle cure ne risente.

I dati raccolti dal campione valutato nel 2021, composto da circa 1033 operatori sanitari, hanno mostrato che le persone con livelli elevati di ansia sono passate dal 50% al 56%, ma – dato ancora più interessante – quelle con depressione dal 27% al 41% e quelle in burnout dal 29% al 41%.

  • Ci sono state ripercussioni dirette del malessere del personale sanitario?

Si, quando il personale sanitario è demotivato e stanco è meno efficiente nelle cure e, quindi, anche più incline a sbagliare. Il burn-out nei contesti sanitari è una condizione ampiamente documentata dalla letteratura scientifica in epoca pre-pandemica, evidenziando che in molte organizzazioni ospedaliere una quota di lavoratori in burnout rappresenta un fenomeno parafisiologico; tuttavia, in una situazione di pandemia, che ormai si sta protraendo da due anni, la percentuale di operatori in burn-out è quasi raddoppiata rispetto a quanto osservato in passato: il personale evidentemente non riesce più a stare al passo con un’emergenza che purtroppo è diventata quotidianità. E lavora in un contesto emotivo contrassegnato dall’incertezza rispetto a quando (e se) tutto ritornerà nella “normalità”.

Gli infermieri, ripeto, sono sicuramente la categoria che ha subito di più gli effetti secondari del Covid-19 negli ospedali.

  • Essendo quindi il personale sanitario debilitato, è possibile che tale fragilità possa portare a rischi clinici più frequenti?

Certamente, il burn-out aumenta decisamente il rischio di errori e il rischio clinico a carico del paziente. La situazione psicologica dei sanitari non è solo a carico degli stessi, ma si riversa anche sui pazienti. Lavorare con persone che sono sfinite è un problema che riguarda gli utenti alla fine.

  • In base alla ricerca condotta, lei ha dei suggerimenti per ovviare a tali rischi?

Ci sono due livelli su cui si può agire. Noi come psichiatri possiamo agiamo su uno di questi, quello individuale (o eventualmente di gruppo), cercando di alleviare l’impatto dei sintomi psicologici e cercando di dotare gli operatori maggiormente a rischio di quegli strumenti emotivi e cognitivi per fare fronte in maniera meno disfunzionale alle aumentate sollecitazioni lavorative legate al lavoro in pandemia; ma ci sono dei livelli organizzativi del sistema, come ad esempio le turnazioni di lavoro o l’aumento il personale sanitario, che devono essere riviste nonostante ci siano delle oggettive difficoltà legate ad una situazione diventata oramai ingestibile.

Aiutare i professionisti nei reparti a rischio a gestire meglio le proprie emozioni e insegnare delle tecniche per ridurre lo stress, come la mindfulness, può essere l’inizio. All’interno del Policlinico di Verona stiamo appunto cercando di mettere in atto un progetto per capire se gli interventi di rilassamento e meditazione in qualche modo possano dotare gli operatori di strumenti emotivo- cognitivi in grado di far fronte a quelle che sono le necessità.

Ovviamente, non tutti gli operatori sanitari sono vittime dello stress psicologico, o lo sono in maniera debilitante, ma è molto importante sviluppare degli strumenti di supporto psicologico al fine di aiutare gli uni e gli altri, perché la cura del personale sanitario è una parte essenziale per preservare la sicurezza negli ospedali.

Il benessere di si prende cura di noi è fondamentale.