ARRIVA LA 5A EDIZIONE DEL PREMIO SHAM

Nuove tipologie di progetto e un Premio speciale per promuovere la prevenzione e la riduzione dei rischi nelle strutture sanitarie italiane ed europee.

 

Sham, Risk Manager e partner di operatori sanitari e socio-sanitari, lancia oggi in collaborazione
con Federsanità e ARIS, la 5a edizione del suo concorso annuale di Risk Management, il cui scopo
è valorizzare e finanziare progetti innovativi a favore della prevenzione dei rischi.
Oltre alla tradizionale assegnazione dei premi a livello Paese secondo le tradizionali tre categorie
di appartenenza dell’ospedale (pubblico, privato senza scopo di lucro e privato), il concorso
premierà per la prima volta un progetto europeo già realizzato, di particolare efficacia nell’ambito
della riduzione dei rischi. Si tratta di un Premio internazionale per il quale si sfideranno tutte le
strutture dei 4 paesi in cui Sham è presente (Francia, Spagna, Italia e Germania).
Il concorso, che si svolgerà da marzo a ottobre 2021, rispecchia l’ambizione di Sham di rendere
sempre più sicuro il percorso di cura, al servizio del paziente.

Un importante concorso paneuropeo: 4 paesi, 3 nuove tipologie, 1 nuovo premio europeo

Da oltre 20 anni il Concorso Risk Management Sham a livello europeo sostiene progetti innovativi nel campo della prevenzione e della gestione del rischio all’interno di enti, strutture e servizi sanitari e socio-sanitari. Aperto a tutte le strutture, associate o meno a Sham, e nei 4 paesi in cui il Gruppo è presente, il concorso offre l’opportunità di presentare un progetto per migliorare la gestione e la prevenzione dei rischi.
In Italia il Premio Sham ha la peculiarità di avere il sostegno di importanti partner del panorama sanitario nazionale, quali Federsanità, a rappresentanza delle strutture pubbliche e di ARIS, a rappresentanza degli istituti privati senza scopo di lucro. Un campione vario e rappresentativo della sanità italiana con azioni o progetti all’avanguardia volti a migliorare la sicurezza dei pazienti e del personale socio-sanitario.

A differenza delle scorse edizioni, quest’anno il concorso prevede 2 premiazioni:

1. Tre premi in Italia per i progetti futuri di riduzione del rischio (quindi non ancora realizzati)
Le strutture che parteciperanno al Concorso Risk Management avranno la possibilità di candidarsi,
secondo la propria categoria di appartenenza (Pubblico, Privato, Privato senza scopo di lucro) con progetti di tre differenti tipologie, che riflettono i principali driver di messa in sicurezza del percorso di cura, sui quali Sham opera quotidianamente: rischio medico, rischio informatico e qualità della vita degli operatori sanitari.
Tipologia “Riduzione del rischio sanitario”, per premiare progetti innovativi a favore del
miglioramento delle procedure e delle pratiche mediche;
Tipologia “Riduzione del rischio cyber”, per premiare le azioni di prevenzione e
sensibilizzazione dei professionisti, le soluzioni organizzative e tecniche per fronteggiare il rischio
informatico.
Tipologia “Prendersi cura di chi si prende cura di noi”, per premiare progetti volti a migliorare
la qualità della vita nei luoghi di lavoro;

2. Un premio europeo unico per un progetto “best practice” già realizzato

Per la prima volta Sham assegnerà un premio europeo a un progetto già realizzato in una struttura francese, italiana, spagnola o tedesca nell’intento di sviluppare la condivisione di buone pratiche tra gli operatori sanitari europei. Con l’introduzione di questa nuova componente europea nel concorso, Sham intende sostenere e promuovere ampiamente una struttura esemplare e il suo progetto, particolarmente innovativo ed efficiente, in materia di prevenzione dei rischi.

Una cerimonia di premiazione in occasione del World Patient Safety Day

Il concorso, che premia 3 vincitori per ciascun paese (1 vincitore per categoria) e 1 vincitore per
l’Europa (tutti i paesi e tutte le categorie insieme) con premi che ammontano fino a 5.000 euro, si svolgerà da marzo a ottobre 2021.

I premi saranno assegnati a tutti i vincitori durante un evento digitale organizzato il 17 settembre 2021 in occasione della Giornata mondiale della sicurezza del paziente.

Rispondere alle sfide della prevenzione e della gestione del rischio

Perseguendo l’obiettivo di prevenire e ridurre ulteriormente i 3 principali rischi del settore (rischio risorse umane, rischio medico e rischio informatico), nonché sostenere lo sviluppo di progetti innovativi di prevenzione e riduzione dei rischi, Sham (gruppo Relyens) conferma il proprio posizionamento come
operatore mutualistico europeo di riferimento nella gestione del rischio per gli operatori sanitari.

RAPPORTO CLUSIT 2021: ATTACCHI CYBER IN AUMENTO NEL MONDO

I dati del rapporto mostrano un aumento del 12% degli attacchi informatici nell’ultimo anno con una riduzione di minacce dirette ai sistemi aziendali mentre raddoppiano le aggressioni ai danni dei singoli utenti.

 

Attacchi cyber sempre più numerosi e frequenti ai danni di forze dell’ordine, sanità ma anche ai singoli cittadini. Questo è il resoconto dell’ultimo rapporto Clusit che mostra come si siano evolute le minacce informatiche negli ultimi mesi.

Nell’anno dell’inizio della pandemia si è registrato un aumento degli attacchi informatici su scala globale del 12%. Le cifre sono in linea con le previsioni e il tasso di crescita degli anni passati che porta a un complessivo aumento del 66% rispetto al 2017. Niente di sorprendente, dunque in termini di numeri assoluti. Le principali novità si registrano, invece, rispetto alle modalità di attacco e agli obiettivi colpiti. Il tema Covid-19 è stato alla base del 10% degli eventi registrati. Cyber attack e truffe basate sull’ingegneria sociale hanno sfruttato le insicurezze e le incertezze del momento per assicurarsi il successo dei propri assalti. In particolare, gli attacchi a tema Covid-19 indirizzati alle strutture sanitarie si sono divisi tra tentativi di estorsione di denaro (55%) e tentativi di spionaggio ai danni di centri di ricerca sui vaccini per l’acquisizione di informazioni rilevanti (45%). Durante l’anno appena trascorso, oltre alla tensione a cui sono state sottoposte a causa della pandemia, le strutture sanitarie si sono viste in prima linea anche per quanto riguarda le minacce informatiche posizionandosi subito dietro a enti governativi e della difesa per numero di attacchi subiti.

Ridotti gli attacchi diretti ai sistemi aziendali, ormai preparati e consapevoli dei rischi digitali, durante il 2020 sono aumentati, invece, i tentativi di arrivare al sistema centrale a partire dai dispositivi personali dei lavoratori costretti allo smartworking, meno attrezzati a difendersi. Sono 85 mila le denunce di aggressione digitale da parte degli utenti, il doppio rispetto a quanto registrato nel 2019. Gli strumenti più sfruttati per inserirsi nei dispositivi sono i malware (42%) di cui il 29% sono, più precisamente, ransomware che prevedono il pagamento di un riscatto per la restituzione dei dati sottratti.

La maggior parte degli attacchi, l’81%, è portato avanti con scopi criminali, come l’estorsione di denaro, mentre una piccola parte, il 14%, è mosso da tentativi di spionaggio cyber in gran parte indirizzati ai centri di ricerca sui vaccini per il Covid-19.

Secondo i dati del report gli Stati Uniti sono il paese più colpito: a loro sono stati indirizzati il 47% dei cyber attack. I Paesi europei, al secondo posto, hanno visto una crescita dell’11% rispetto all’anno precedente, e sono stati vittime del 17% degli attacchi.

Complessivamente, i dati del rapporto mettono in guardia sul progressivo aumento delle minacce cyber sia per frequenza che entità dei danni: il 56% degli attacchi che vanno a buon fine, infatti, ha un impatto catalogato come “alto” e “critico” mentre il 44% è di gravità media. Poiché i sistemi informatici sono ormai legati a tutte le attività sociali, è evidente quanto le minacce cyber possano influenzare economicamente un Paese. È prioritario dunque adottare delle politiche in grado di mitigare i danni e prevenire i rischi che coinvolgano più livelli di sicurezza e che non si limitino alla formazione di specialisti ma anche dei singoli utenti.

L’IMPORTANZA DEL BUON DORMIRE

I disturbi del sonno sono molto più frequenti di quanto si possa immaginare e le cause sono tra le più varie. Rivolgersi a dei professionisti del settore per migliorare il proprio riposo risulta essere una scelta necessaria, soprattutto in periodi complicati come quello derivante dalla pandemia.

 

In vista del webinar “La maratona del sonno: dai meccanismi di regolazione ai disturbi del sonno” che si terrà il prossimo 19 marzo e promosso dall’AIMS, Associazione Italiana di Medicina del Sonno, abbiamo parlato con il Prof. Luigi De Gennaro, professore ordinario presso La Sapienza Università di Roma ed esperto di medicina del sonno.

Cosa sono i disturbi del sonno e quante persone ne soffrono?

I disturbi del sonno, nell’ultima revisione internazionale, arrivano fino a cento tipologie, includendo anche sintomi e patologie molto rare. L’insonnia, nella forma cronica, ossia che ha una durata maggiore di tre mesi, riguarda in Italia, ma praticamente in ugual misura nel mondo, una forchetta che va dal 10 al 15 % della popolazione. Un altro esempio potrebbero essere le apnee, che colpiscono il 3-5% dei soggetti. Le percentuali riguardano una cospicua parte della popolazione, che si trova ad affrontarle prima o poi nella vita in base anche ai diversi stadi della propria esistenza.

Quali sono le cause principali?

Se siamo davanti ad una patologia, come ad esempio la narcolessia che è una malattia rara, abbiamo una causa prevalentemente di carattere genetico. Altre volte, invece, entrano in gioco tantissimi fattori come ad esempio problemi respiratori per quanto riguarda le apnee, comportamenti e credenze sbagliate per l’insonnia cronica. Molto spesso sono le condotte e il perpetuare di esse che fanno il disturbo da insonnia. Ad esempio, una persona che per un determinato periodo di tempo soffre di insonnia notturna, cercando di compensare le ore di riposo nel pomeriggio, non sa che in questo modo lo sta consolidando e rafforzando.

È possibile consigliare un percorso da intraprendere per guarire dai disturbi del sonno? O ancora, può, invece, indicarci cosa è preferibile non fare?

C’è un’unica società scientifica e clinica in Italia che si occupa di medicina del sonno. Abbiamo una rete di centri accreditati che erogano trattamenti specialistici, ci sono esperti in ogni disturbo del sonno che prestano servizio in base alla diversa tipologia o vera e propria patologia. Il mio consiglio è quello di rivolgersi a specialisti di settore e alle strutture accreditate. Tutto il territorio nazionale è coperto dalla rete di centri di medicina del sonno.

La mancanza di sonno può avere un costo sociale o personale? Quali sono gli effetti che i disturbi del sonno possono avere sulla società?

I costi sono elevatissimi. Ci sono una lunga serie di catastrofi storiche in cui le commissioni di inchiesta, di volta in volta, hanno appurato che alla base del famoso “errore umano” c’era la pregressa assenza di sonno. Ovviamente, ritornando in un contesto quotidiano, la privazione del sonno procura sonnolenza diurna e tra le conseguenze più frequenti ad essa c’è l’errore prestazionale, decisionale ed esecutivo, arrivando così ad una reale riduzione di efficienza lavorativa. L’Italia, da circa tre anni, è dotata di una legge innovativa che subordina il rilascio delle patenti, ma soprattutto i rinnovi, alla valutazione dell’eccessiva sonnolenza diurna, prescrivendo una serie di quadri neurologici e respiratori, che se non trattati adeguatamente possono portare ad un eccessivo sonno diurno. Uno degli aspetti drammatici sociali è che una quota elevatissima degli incidenti stradali è primariamente accreditabile ad un’eccessiva sonnolenza alla guida.

Il lockdown causato dalla pandemia di Covid-19 ha peggiorato i disturbi del sonno nell’ultimo anno?

Le conseguenze sono molto cospicue. La prima è l’aumento delle insonnie. Ma questo è solo uno degli aspetti. L’influenza del lockdown e della pandemia ha impattato molti altri livelli del sonno in maniera spesso difficilmente quantificabile: disturbi d’ansia, depressione, disturbo post traumatico da stress. Sono espressione del trauma a cui la salute psicologica delle persone è stata sottoposta. Tali traumi, naturalmente si riversano sul sonno, impattandone in maniera specifica e selettiva. Ad esempio, è stata riscontrata la presenza di incubi come espressione del trauma. I sogni terrifici sono aumentati drammaticamente e sono un altro specchio delle conseguenze della situazione d’allarme che stiamo vivendo ormai da mesi.

RSA E COVID: UNO DEI GRANDI TEMI DELLA SICUREZZA

Venerdì scorso, il 5 marzo 2021, si è parlato a lungo di COVID e residenze per anziani.

L’appuntamento online era organizzato dall’Italian Network for Safety in Healthcare (INSH) in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna.

Come ha detto Peter Lachman, presidente della patrocinante ISQua (International Society for Quality in Health Care), alla luce della pandemia “è necessario ripensare e ridisegnare i modelli di cura con competenze integrate nelle RSA, cosicché le cure siano sicure, della massima qualità e orientate alla persona”.

La fragilità delle residenze per anziani davanti all’impatto del Sars-CoV-2 è un fenomeno mondiale, come ha rivelato l’intervento di Adelina Comas-Herrera della London School of Economics. L’effetto però non è stato lo stesso ovunque: sono stati rilevati punti di forza e debolezza sui quali è utile soffermarsi prima del lungo processo che sarà necessario intraprendere per migliorare la sicurezza e i confini operativi dell’intero settore delle Long Term Care.

Sanità 360° ha seguito l’intero appuntamento e in questo numero propone una selezione degli argomenti che, a nostro giudizio, possono far partire la riflessione. Li trovate qui di seguito:

 

Come sempre, grazie per l’attenzione e buona lettura.

Roberto Ravinale,

Direttore Esecutivo di Sham in Italia

 

LA RESPONSABILITÀ CIVILE SANITARIA NELLE RSA AL TEMPO DEL COVID

Le richieste di risarcimento per danni da Covid-19 mettono in mostra i limiti della legge Gelli-Bianco nell’individuare la responsabilità di un danno in ambito sanitario in assenza di linee guida.

 

A distanza di un anno dall’inizio della pandemia cominciano a farsi sempre più pressanti le richieste di risarcimento da parte dei familiari degli ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali scomparsi per il Covid-19. “Stabilire gli estremi di un compenso nel caso di morte da Covid-19 è estremamente complicato. Tra i temi in discussione spicca la domanda: quale è il genere di compensazione più adeguata? Ovvero, è applicabile il principio della responsabilità civile o, invece, è opportuno ricorrere a un sistema indennitario ragionando in modo mutualistico? Ma si discute anche di cosa si possa effettivamente definire un danno da Covid, se sia da intendersi esclusivamente con la morte di un paziente che aveva contratto il virus o se debbano essere inclusi anche casi meno evidenti”.

A riportare queste osservazioni è l’avvocato Maurizio Hazan, esperto di diritto assicurativo, durante il suo intervento per il webinar COVID-19 nelle RSA tenutosi il 5 marzo[1].

Mentre la legge attuale prevede, ad esempio, la copertura per danni da vaccinazioni obbligatorie o consigliate manca, invece, un sistema indennitario per le morti e i danni da Covid.

“Generalmente, nel contesto di risarcimenti per MedMal si fa riferimento al sistema della responsabilità civile sanitaria. In questo caso però resta aperta la questione se sia possibile parlare di responsabilità civile per le morti da Covid avvenute durante i primi mesi- afferma Hazan. -La legge Gelli-Bianco del 2017 ha cambiato il paradigma della responsabilità sanitaria rendendola responsabilità per colpa. Ha assunto che la pratica sanitaria virtuosa fosse quella che seguiva le linee guida e i parametri di condotta, rendendolo un principio valido sia per i singoli specialisti che per le strutture sanitarie. Il Covid però ha scosso il concetto di linee guida, impossibili da determinare per la natura sconosciuta del virus e in assenza delle quali non è possibile stabilire casi di negligenza e medical malpractice. Insomma, cade l’applicabilità della legge Gelli-Bianco”.

Superata la sorpresa iniziale, la pratica e l’esperienza su scala mondiale hanno permesso di raccogliere sufficienti dati per la realizzazione di best practice condivise.

“Per le RSA i protocolli sono arrivati lentamente con il passare dei mesi. Con l’accumularsi di maggiore esperienza, questi sono diventati sempre più specifici. È emersa, così, la difficoltà delle strutture ad assecondare tutte le direttive dei protocolli e mettendo in luce il divario tra quello che è realisticamente realizzabile nella pratica quotidiana e la richiesta del legislatore” commenta l’avvocato.

Oltre alle difficoltà già presentate c’è da considerare anche la necessità di trovare una definizione da danno per Covid.

“In molti casi i familiari sono spinti alla richiesta di un risarcimento lamentando che il proprio caro è deceduto, non perché abbia contratto il virus, ma perché la chiusura alle visite familiari della struttura in cui egli era ospite ha causato una tale sofferenza emotiva da portarlo a una morte precoce” spiega Hazan.

Il dibattito su questi temi è ancora aperto e gli addetti ai lavori sono consapevoli della necessità di trovare presto delle posizioni condivise. Nonostante ad oggi le richieste di risarcimento per danni Covid-19 non siano ancora eccessivamente comuni, è ragionevole aspettarsi un aumento nel prossimo futuro e, per il benessere delle RSA e delle strutture sanitarie in generale, è necessario trovare queste posizioni al più presto.

L’intervento dell’avvocato Maurizio Hazan può essere visto a questo link a partire da 2h30min.

 

[1] Organizzato da:  Italian Network for Safety in Healthcare (INSH) in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna il 5 marzo 2021 e con il patrocinio di ISQua (International Society for Quality in Health Care).

 

RESIDENZE PER ANZIANI: I NUMERI DELLA PANDEMIA NEL MONDO

La mortalità associata al Covid-19 nelle strutture residenziali: i risultati di uno studio in 22 Paesi.

 

“Il 41 per cento dei morti da Covid erano anziani ospitati in una struttura residenziale. Una cifra che risulta ancora più impressionante se si considera che questa categoria rappresenta lo 0,75 della popolazione dei Paesi interessati dallo studio”.

Questa è la sintesi offerta da Adelina Comas-Herrera del Care Policy and Evaluation Centre (CPEC) della London School of Economics durante il webinar Covid-19 nelle RSA[1] del 5 marzo 2021.

Pur senza sottostimare i problemi metodologici che nascono nell’affiancare i dati di Paesi e sistemi sanitari diversissimi tra di loro, la ricerca offre una stima e un ordine di grandezza che porta ad una constatazione, di fatto, inequivocabile: nelle RSA di Paesi diversi che vanno dalla Scozia ad Hong Kong, il numero di vittime di Covid tra gli anziani nelle strutture residenziali è stato altissimo[2].

Anche i tentativi di isolare le residenze per anziani si sono rivelati vani, mentre il numero e la frequenza dei decessi tra gli ospiti veniva influenzato dal livello di contagio nella società circostante. Il principale fattore di rischio, infatti, è sembrata essere la diffusione del virus attorno alla RSA, non le misure adottate dentro le strutture.

Pur considerando le differenze tra i diversi Paesi, le diversi modalità di ospedalizzazione e i livelli assistenziali di partenza, il gruppo di lavoro del CPEC ha individuato alcune caratteristiche della residenzialità per anziani che possono essere individuate come cause della loro vulnerabilità.

Tra queste: le residenze per anziani non erano concepite come luoghi di isolamento ma di vita in comune; le strutture non sono state considerate una priorità politica durante la prima ondata della pandemia; non esistevano linee guida per identificare i sintomi geriatrici del Covid-19 (delyrium in alcuni casi piuttosto che sintomi influenzali); una tardiva disponibilità dei tamponi; personale scarso e sottopagato, unito ad un coordinamento tra residenze per anziani e sistemi sanitari che è stato pressoché inesistente.

Ecco da dove ripartire per ripensare quanto avvenuto nei più di dodici mesi trascorsi dall’esplosione della pandemia. Partendo, magari, da residenze più piccole, maggiormente collegate al tessuto sociale della comunità.

L’intervento della dottoressa Adelina Comas-Herrera è visionabile a questo link a partire da 1h02min.

 

[1]Organizzato da:  Italian Network for Safety in Healthcare (INSH) in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna il 5 marzo 2021 e con il patrocinio di ISQua (International Society for Quality in Health Care).

[2] Per i numeri dell’Italia, che non ha raccolto dati sistematicamente per le RSA, si veda l’articolo RSA E COVID IN ITALIA, pubblicato su www.sanita360.it

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RSA E COVID IN ITALIA

Il tasso di mortalità della prima ondata è stato probabilmente sottostimato, ma il grande problema del nostro Paese parte dai dati che non ci sono. Questo e altri problemi emergono dal confronto con le esperienze europee, nonostante i miglioramenti registrati nella seconda ondata. 

 

“Ad oggi l’Italia rimane l’unico grande Paese europeo che ancora non dispone di dati certi e ufficiali circa l’andamento dei contagi e dei decessi nelle strutture per anziani, poiché i dati ufficiali della Protezione Civile e del Ministero della Salute continuano a non offrire il dettaglio su quanto accade all’interno delle strutture, lasciando un grave vulnus nel sistema conoscitivo circa la diffusione del virus nelle strutture socio-sanitarie nella seconda ondata”.

L’implicazione è che molte scelte che hanno riguardato la gestione del COVID nelle RSA sono state prese senza dati a supporto.

Questa è una delle evidenze riportate da “L’impatto di Covid-19 sul settore LTC (Long Time Care, ndr) e il ruolo delle policy: evidenze dall’Italia e dall’estero” di Eleonora Perobelli, Sara Berloto, Elisabetta Notarnicola e Andrea Rotolo. Pubblicato in “Le prospettive per il settore  socio-sanitario  oltre la pandemia” 3° Rapporto Osservatorio Long Term Care, a cura di Giovanni Fosti Elisabetta Notarnicola Eleonora Perobelli.

L’articolo è stato presentato dalla Dottoressa Sara Berloto - CERGAS SDA Bocconi/Observatory Long Term Care – durante il webinar “COVID -19 nelle RSA[1]” del 5 marzo 2021.

“Con l’arrivo della seconda ondata nell’autunno 2020, il settore LTC ha fatto dei passi in avanti nel contenere e monitorare il contagio delle strutture. In primo luogo, ora alle RSA è garantito il rifornimento di DPI e la possibilità di fare tamponi, assicurando il monitoraggio degli ospiti e l’inclusione nel bollettino nazionale dei casi rilevati”[2] scrivono gli autori del rapporto.

Situazione diversa nei primi mesi dell’anno dove sui giornali sono apparse notizie vieppiù allarmanti sul dilagare del COVID tra i pazienti delle RSA italiane e settentrionali in particolare.

Partendo dalla crescente pressione mediatica nei primi mesi della pandemia, l’Istituto Superiore di Sanità ha lanciato una “Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie”, pubblicata a giugno 2021 e aggiornata tra il 1° febbraio e il 5 maggio. Partendo dai dati di oltre 1300 RSA “si è registrato mediamente un tasso di mortalità del 9,1%”. La percentuale maggiore di decessi è stata riportata in Lombardia (41,4%) e in Veneto (18,1%). Tra i 9.154 soggetti deceduti, solo 680 (il 7,4%) erano risultati positivi al tampone per Covid-19, mentre 3.092 (il 33,8%) avevano presentato sintomi simil-influenzali. ISS stesso suggerisce di considerare congiuntamente i decessi di soggetti accertati positivi e con sintomi simil-influenzali per stimare il tasso di mortalità complessivo legato al virus nelle strutture, che risulta quindi pari a 3,1% (sale fino al 6,5% in Lombardia). La stessa indagine conferma che nello stesso periodo, 5.292 persone residenti nelle strutture rispondenti sono state ospedalizzate (il 5,4% degli ospiti)[3].

Quella è stata la prima e l’ultima survey nazionale alla quale lo stesso articolo cita “il lavoro pubblicato da ATS Milano Città Metropolitana a giugno 2020. In questo report l’azienda ha confrontato i decessi avvenuti tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2020 e la media degli stessi mesi tra il 2016 e il 2019 in 152 RSA per un totale di 18.531 anziani assistiti (Tabella 4.2). Nel periodo di riferimento tra il 2016 e il 2019 nelle strutture erano morte in media poco meno di mille persone, mentre quest’anno i decessi sono stati 3.657, 2.666 in più (+ 118%), a rimarcare ancora una volta un chiaro impatto della pandemia tra gli ospiti delle RSA[4].

Dopo aver messo in risalto l’assenza di nuove misure di raccordo tra settore sanitario e sociosanitario (l’assenza di nuove regolamentazioni nel rapporto tra RSA e ospedali[5]) in tutte le Regioni italiane, Sara Bertolo ha comparato la risposta europea, identificando alcuni fattori che possono essere addotti per capire la difficoltà delle RSA in Italia davanti alla prima ondata di COVID.

Le criticità riscontrate sono divise in tre ambiti: l’isolamento dei pazienti che non è stato possibile e la mancanza di coordinazione con le autorità sanitarie; le difficoltà nello screening degli operatori, al quale si accompagna l’assenza dei dati per capire quali soluzioni adottare e la scarsità iniziali dei dispositivi di protezione individuali; la sostenibilità finanziaria delle strutture, fortemente compromessa  dall’assenza di misure nazionale o regionali per sostenere le spese e l’assunzione di nuovo personale.

Questi alcuni dei temi offerti per riflettere sul settore Long Time Care e su dove intervenire per il futuro

L’intervento della dottoressa Bertolo è visibile a questo link a partire da 1h23min

 

 

[1] Organizzato da: Italian Network f or Safety in Healthcare (INSH) in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna il 5 marzo 2021 e con il patrocinio di ISQua (International Society for Quality in Health Care)

[2] “Le prospettive per il settore socio-sanitario oltre la pandemia” 3° Rapporto Osservatorio Long Term Care, a cura di Giovanni Fosti Elisabetta Notarnicola Eleonora Perobelli (LINK). pag 84.

[3] Op.cit. pag 82

[4] Op. cit. pag 83

[5] Op.cit. Tabella 4.3. ‘La risposta regionale’ pag 87

SICUREZZA DELLE CURE E FORMAZIONE PREVENTIVA NELLE RSA DURANTE IL COVID-19

Quali buone pratiche introdurre nelle RSA – a partire dal controllo delle infezioni – e verso quali figure professionali indirizzare la formazione. L’esperienza dell’Italian Network for Safety in Heathcare e dell’Università di Genova.

 

“Le RSA rappresentano un livello medio di assistenza medica, infermieristica e riabilitativa, associata ad un elevato livello di assistenza residenziale. Per questo motivo tali strutture sono state enormemente colpite dalla pandemia”. Così ha introdotto la tematica Matteo Scopetti dell’Università La Sapienza di Roma, durante il webinar Covid-19 nelle RSA del 5 marzo 2021[1].

La rete italiana conta su 3.117 strutture che presentano una maggiore densità nelle regioni del nord, con numeri di posti letto variabili da 8 a 100.

L’impiego del personale medico risulta quasi del tutto assente: infatti l’11% delle RSA non ha medici che operano al loro interno (1-5 unità per struttura) e gli infermieri sono presenti in un numero compreso tra 0 e 10.

Il personale sociosanitario, invece, è presente nelle RSA per il 64,5%, contando circa due operatori per posto letto.

“INSH- Italian Network for Safety in Heathcare- ha dato il via, dall’ottobre 2020 fino a marzo 2021,  ad una ricerca basata su dati di settore volta a chiarire i profili di rischio caratterizzanti nelle RSA, per poi procedere con l’elaborazione di buone pratiche che possano essere utili a tutte le strutture” ha affermato Scopetti.

La ricerca si è svolta secondo una metodologia in 4 fasi che ha analizzato la struttura del sistema, identificato i profili di rischio e le misure preventive, pianificato la sorveglianza e il controllo.

In seguito sono state ipotizzate teorie preventive in diverse aree come ad esempio: la protezione dei professionisti attraverso la formazione, l’uso di dispositivi di protezione individuale affinché essi stessi non diventassero dei veicoli di infezioni, il supporto psicologico e l’ assicurazione di riposo tra i turni; la prevenzione della diffusione del virus tra gli ospiti con l’implementazione di separate aree operative controllabili ed assegnate ad un numero di operatori esclusivamente dedicato; la gestione dei casi Covid-19.

“Per quanto riguarda la sorveglianza – continua Scopetti – è necessaria l’adozione di politiche di controllo delle infezioni che siano mirate a comprendere il problema. A tal proposito, il tavolo tecnico di INSH sta definendo delle buone pratiche in modo che le strutture possano pervenire a sistemi di autovalutazione che consentano di identificare precocemente il rischio. Infatti, un’adeguata gestione del rischio clinico nelle RSA richiede una pianificazione sistemica e l’adozione di specifiche strategie, di comunicazione e formazione”.

A tal proposito è intervenuta Angela Testi dell’Accademia per il Management in Sanità dell’Università di Genova.

“Nel nostro progetto, cominciato prima dell’arrivo del Covid-19, abbiamo cercato di comprendere la creazione di valore all’interno dei processi che si svolgono dentro le RSA. Strategicamente, cominciamo sempre delle cariche più alte: medici e direttori sanitari delle residenze possono diventare leader del cambiamento. Attraverso interviste strutturate con i direttori sanitari delle residenze liguri, si è visto come essi abbiano delle responsabilità dirette e indirette che danno loro una visione delle RSA a tutto campo; da qui la creazione di un corso di formazione”.

Le RSA che hanno preso parte a questo progetto sono state circa 170 con una prevalenza di privati ed estremamente eterogene tra loro, con un numero totale di 3.728 iscritti.

Il corso di formazione prevedeva due attività: la prima, un video tutorial indirizzato a tutte le figure delle strutture, dai medici agli operatori alberghieri, in cui si trattavano argomenti tradizionali per poi avere nozioni più specifiche al rischio clinico; la seconda, prevalentemente dedicata ai direttori sanitari e al loro aggiornamento di formazione.

“Il progetto ha avuto un flusso altalenante, con una fase di picco quando è cominciata la formazione dei direttori sanitari.  La formazione ha avuto un impatto immediato, sono subito arrivate proposte di cambiamento, come ad esempio l’implementazione della telemedicina, che sono state prontamente trasmesse a chi di competenza a livello regionale.”

Gli interventi sopra menzionati possono essere visualizzati tramite link a partire da 1h26min.

 

[1] Organizzato da: Italian Network for Safety in Healthcare (INSH) in collaborazione con il Laboratorio Management e Sanità della Scuola Superiore Sant’Anna il 5 marzo 2021 e con il patrocinio di ISQua (International Society for Quality in Health Care).