MORTI INDIRETTE DA COVID-19: TRASCURATE LE PATOLOGIE GRAVI

Uno studio italiano ha appurato il calo di ricoveri per infarto nel pieno dell’emergenza coronavirus.

“State a casa”: questo il messaggio che è stato dato fin dai primi momenti in cui l’Italia ha compreso che il Covid-19 non era una banale influenza. Stare a casa per non contagiare e per non essere contagiati, anche in ospedale. Il pronto soccorso è diventato agli occhi di molti cittadini come il luogo simbolo da evitare per non contrarre il virus.

La paura di contrarre il Covid nei pronti soccorsi induce i pazienti a trascurare le patologie più gravi.

Con il risultato che molte patologie sono state quindi trascurate, una su tutte la sindrome coronarica acuta (ACS), ovvero l’infarto. Un dato che è stato appurato dallo studio Reduced rate of Hospital admission for ACS during Covid-19 Outbreak in Northern Italy condotto da Ovidio De Filippo, Fabrizio D’Ascenzo e Gaetano Maria De Ferrari – Professore di Cardiologia all’Università di Torino e Direttore di Cardiologia della Città della Salute – e pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine.

Il team ha eseguito un’analisi retrospettiva delle caratteristiche cliniche e angiografiche di pazienti consecutivi che sono stati ricoverati per ACS in 15 ospedali del nord Italia, verificando un tasso effettivamente ridotto di un terzo dei ricoveri ospedalieri.

Sanità 360° ne ha parlato direttamente con il Prof. De Ferrari in questa intervista.

Come è nato e si è sviluppato lo studio sui ricoveri da sindrome coronarica acuta?

Lo studio nasce da una forte impressione soggettiva, nata da una breve consultazione con colleghi e amici. Parlando con loro abbiamo notato che in diversi centri si stava verificando una marcata riduzione di ricoveri di pazienti per infarto. È quindi nata l’idea di approfondire il fenomeno, facendo un’analisi precisa e accurata sulla scomparsa di una fetta importante di pazienti affetti da Sindrome Coronarica Acuta.

Abbiamo confrontato i ricoveri avvenuti nel periodo che va dal primo paziente di Codogno (20 febbraio) fino alla fine di marzo 2020, con quelli avvenuti in due periodi distinti: nello stesso arco temporale nel 2019 e nel periodo dal 1 gennaio al 20 febbraio del 2020.

Quali sono i risultati più importanti dello studio?

I due periodi di confronto avevano un simile numero di ricoveri quotidiani, viceversa negli ospedali coinvolti nella ricerca, che si trovano prevalentemente in Piemonte ed Emilia-Romagna unitamente a pochi ospedali lombardi, toscani e laziali, si è rilevata una riduzione importante di oltre un terzo (33%) dei ricoveri per infarto. In alcuni casi, come nell’Ospedale di Vercelli, la riduzione dei ricoveri per infarto è arrivata al 50%.

Andando poi a suddividere il periodo analizzato usando l’inizio del lockdown come spartiacque, osserviamo nei giorni dopo il 6 marzo una riduzione ancor più marcata.

Quali sono le altre peculiarità rilevate dallo studio?

Anche se non abbiamo dati esatti su tutti i pazienti, abbiamo osservato come sono numerosi i casi di ricoveri tardivi. Appurato che sono meno i pazienti che si sono recati in ospedale, emerge un altro dato preoccupante: anche gli infarti che arrivano, tendono ad arrivare più tardi rispetto all’insorgenza dei sintomi. Nel caso dell’infarto STEMI (infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST), si dice che “il tempo è muscolo”: infatti, ogni minuto che passa è un piccolo pezzo di cuore che muore. La precocità delle cure è quindi fondamentale. Una cosa è infatti curare un infarto dopo tre ore, un’altra è dopo tre giorni.

Il risultato complessivo mostra che almeno un paziente su tre con infarto non si è recato in ospedale, e di quei due che sono stati ricoverati uno sembra essere arrivato troppo tardi.

Perché lo studio si è concentrato sugli infarti?

L’infarto è una delle più evidenti patologie “tempo dipendenti”. Quindi il ritardo o l’assenza di ricovero, oltre a essere stati particolarmente marcati, sono anche forieri di evoluzioni negative. In generale si sono ridotti tutti i ricoveri urgenti legati a molte altre patologie. Le sedi di Pronto Soccorso nel mese di marzo delle zone molto interessate dal Covid-19, Lombardia, Piemonte, parte dell’Emilia e del Veneto, erano quasi prive di pazienti non Covid.

Passata la fase di angoscia in cui i pronto soccorsi erano pieni di pazienti contagiati, dalla fine di marzo, quando gli accessi Covid si sono ridotti, i pazienti pur di non rischiare di contrarre il virus non cercavano il ricovero per altre patologie e i pronto soccorsi erano quasi deserti. Una tendenza che noi abbiamo accertato riguardare i ricoveri per infarto, ma che ha sicuramente toccato tutte le malattie tempo dipendenti, come ictus, embolie polmonari, patologie di tipo vascolare, ad esempio la rottura di un aneurisma.

Quale il motivo? Solo paura?

Noi non possiamo dire con certezza cosa abbia spinto a non venire i pazienti che non sono giunti, tuttavia, interrogando i pazienti arrivati tardi, abbiamo avuto conferma che il ritardo nel cercare soccorso era dovuto alla paura di andare in ospedale e contrarre il virus. I pazienti che abbiamo intervistato hanno raccontato di aver sopportato il dolore a lungo per evitare di venire al Pronto Soccorso, fino a quando questo non è diventato insopportabile.

La paura di contrarre il Covid-19 al Pronto Soccorso è motivata?

È una paura che soprattutto nella prima fase della pandemia era oggettivamente motivata. Nelle prime fasi dell’emergenza, recarsi in Pronto Soccorso in alcune zone poteva essere rischioso. Ma dal periodo che va circa dal momento del lockdown, quando quasi tutti gli ospedali si erano ormai già dotati di percorsi separati per pazienti Covid o presunti tali, la paura era poco motivata e soprattutto il rischio contagio era minore rispetto a quello legato all’infarto non curato.

Mettendo sul piatto della bilancia il rischio di contrarre il virus andando in un buon ospedale che ha organizzato percorsi ad-hoc a confronto con il non curare una patologia grave, è certamente più alto il rischio di tenersi una patologia grave non curata. In medicina, come in tutto nella vita, credo, è spesso una questione di rapporto tra rischi e benefici.

Come si combatte la paura di contrarre il Covid-19 in ospedale?

Sicuramente un ruolo importante è quello dei mezzi di comunicazione, che possono diffondere la notizia che soprattutto negli ospedali di una certa rilevanza sono stati disegnati dei percorsi per proteggere il più possibile dai rischi infettivi, evidenziando che in generale i rischi legati a una malattia seria sono importanti e maggiori del rischio infettivo.

Gli ospedali sono pronti ad affrontare un possibile rebound?

Per la verità io credo che il nostro sistema sia pronto ad affrontare un ipotetico rebound. Le difficoltà che gli ospedali potrebbero trovarsi ad affrontare sono che in alcune strutture non tutta la cardiologia e le terapie intensive sono state pienamente liberate dal Covid. Le unità coronariche infatti si sono rivelate strutture estremamente adatte per far fronte ai ricoveri Covid, essendo sì intensive, ma un gradino sotto la rianimazione. Quello che gli ospedali possono fare ora, ovviamente entro i limiti possibili, è riassegnare alla cardiologia quelle sezioni trasformate in unità Covid.

Cosa si intende per “possibile nuova epidemia cardiologica”?

Si tratta di un’espressione che abbiamo menzionato nel nostro studio. Le cure, sono state meno efficaci, quindi i pazienti che hanno avuto una cura tardiva non hanno potuto trarne i soliti benefici. In maniera colloquiale si parla di un paziente che “sull’infarto ci ha camminato sopra”: come tutte le patologie, una malattia trascurata avrà conseguenze maggiori di una prontamente affrontata. Questo si verifica anche con lo stesso Covid-19.

Il modello sanitario italiano ha risposto bene all’emergenza Covid-19?

Io credo che gli ospedali abbiano funzionato complessivamente bene. C’è stato sicuramente un difetto in alcuni casi di protezioni adeguate, che ha portato a un eccesso di contagio all’interno del personale sanitario. Quindi, direi che nel far fronte a questo tsunami senza precedenti, gli ospedali hanno risposto abbastanza bene, ma le protezioni “interne” non sono state adeguate.

A essere stata estremamente inadeguata è l’assistenza extraospedaliera, con una lodevole eccezione di parte del Veneto. Nella maggior parte dei casi si è aspettato che i pazienti si aggravassero nelle loro case, arrivando al punto di ricoverarli quando ormai erano in condizioni gravissime, senza peraltro offrire una decorosa assistenza ai pazienti rimasti nelle loro abitazioni. La Lombardia in particolare ha commesso questo errore metodologico, quello di tenere i contagiati dal Covid a casa facendoli arrivare negli ospedali quando ormai le loro condizioni erano estremamente gravi. Ecco, mi sento di dire che l’assistenza extraospedaliera è stata un grossissimo flop.

Dobbiamo constatare che paesi meglio organizzati, come la Germania, hanno disposto cure extraospedaliere migliori e protetto meglio il proprio personale sanitario. In Italia la quota di personale infettato e ammalato e persino deceduto è impressionante.

Perché l’assistenza extraospedaliera non ha funzionato come avrebbe dovuto?

A mio parere, si è trattato di una combinazione di tre fattori: impreparazione nei confronti di un evento così raro, sottovalutazione del rischio e criticità strutturali del nostro sistema. Sicuramente all’inizio il virus è stato sottovalutato e non ci si è fatti trovare preparati. Molte regioni, poi, come la Lombardia, hanno fatto molto affidamento sui grandi ospedali come punta di diamante della loro attività svilendo un po’ il ruolo della medicina generale. Questo è un problema chiaramente antecedente al Covid. Per esempio, la Germania, ha avuto qualche settimana in più per prepararsi e dispone di un sistema extraospedaliero che rispetto al nostro è anni luce avanti. Questi fattori hanno contribuito alla differenza. Quindi in Italia, la carenza maggiore è stata nell’organizzazione territoriale e nel sistema extraospedaliero.