L’EQUILIBRIO DI UN LOSS ADJUSTER: TRA ISTINTO, EMPATIA E PROFESSIONALITÀ

L’importanza di una figura professionale centrale nei processi di negoziazione extragiudiziale che ha cambiato il suo approccio durante l’emergenza Covid-19.

 

Il Sistema Sanitario Nazionale si trova in questo momento ad affrontare una delle più grandi sfide mai presentatesi: gestire una pandemia. Con l’innalzarsi del numero dei contagi, gli ospedali italiani hanno dovuto combattere un virus contagioso e poco conosciuto. Nel percorso è possibile, come in ogni attività, commettere degli errori ed è in questo scenario che entra in gioco la figura del Loss Adjuster: il professionista preposto alla liquidazione dei sinistri in sanità. Un ruolo che può sembrare freddo e analitico, ma all’interno del quale rientrano anche elementi “esperienziali” come l’empatia.

A seguire una sintesi della redazione di Sanità 360° su quali siano le caratteristiche imprescindibili per il processo negoziale di un sinistro e su come la strategia e l’approccio si siano modificati durante l’emergenza Covid-19.

Partiamo dalle basi: qual è il ruolo del Loss Adjuster?

Il Loss Adjuster tecnicamente viene definito in Italia come “liquidatore” o “trasformatore”. Laddove si presenta un sinistro da gestire, l’unica trasformazione che si trova a poter attuare è quella economico-finanziaria. Molto dipende anche dagli altri interlocutori, ovvero i danneggiati, che devono trasformare il loro danno e/o la perdita in altro, che non sempre è qualcosa di monetario. Ad esempio possono essere mossi da un senso di giustizia, e richiedere che ciò che è accaduto a loro non si ripeta. Ecco, questo è uno degli obbiettivi di Sham tramite la collaborazione tra RM (Risk Management) e Loss Adjuster. Lo scopo di questa figura professionale è, quindi, quello di tramutare un danno in “altro”. Apparentemente sembra un processo schematico e impersonale, in verità il lavoro del Loss Adjuster è qualcosa di più, perché nessuna situazione è uguale alle altre e di ciascuna bisogna abbracciare (attraverso il cosiddetto profiling) tutte le peculiarità.

Si tratta di una professione che coinvolge un aspetto empatico. Qual è il ruolo delle emozioni nel processo negoziale?

Per svolgere il lavoro di Loss Adjuster è essenziale conoscere molto bene sé stessi. Essere consapevoli dei propri meccanismi è fondamentale per raggiungere il risultato che ci si è prefissati. L’empatia, ad esempio, può essere un vantaggio ma anche uno svantaggio: il proprio bagaglio esperienziale e morale può infatti far percepire al Loss Adjuster un evento o un risarcimento in maniera filtrata dalla propria esperienza e opinione. D’altro canto, una giusta dose di empatia permette di calarsi al meglio nella situazione e riconoscere le peculiarità distintive.

Quali sono, quindi, le strategie da adottare per mantenere una giusta distanza?

L’obiettivo è quello di bilanciare il fattore empatico con quello dell’oggettività. Ogni evento presenta le proprie peculiarità, ma esistono i fatti ed è a questi che bisogna sempre riportare l’analisi e la strategia.

Operare al livello di Best Practice in questo ambito richiede un continuo aggiornamento per mantenere alte le competenze.

Non dobbiamo dimenticare che il nostro perimetro di movimento è quello giurisdizionale, ed è fondamentale conoscerlo in maniera sempre puntuale, approfondita e aggiornata.

Anche perché dalla preparazione dipende anche la reputazione…

Godere di una buona reputazione significa dare alla voce e all’opinione del Loss Adjuster un risalto più ampio. Guadagnarsi la fiducia dei vari attori e interlocutori coinvolti nel processo negoziale è importante anche al fine di raggiungere il risultato finale: siamo assicuratori e il nostro obiettivo è quello di garantire che per ogni danno subito vi sia un giusto risarcimento.

Laddove si è degni di fiducia e di credibilità, le opinioni tecniche vengono credute e seguite, promuovendo comportamenti corretti e quindi, in ultima analisi, facendo risparmiare tempo e denaro.

Come è cambiato il lavoro durante l’emergenza del Covid-19?

Gestire sinistri durante questo particolare momento storico ci ha posti di fronte a nuove sfide. Una su tutte, il rapporto esclusivamente telefonico. Parlare al proprio interlocutore e alla controparte senza poter leggere il linguaggio del corpo porta ad avere meno informazioni: in fondo, è come giocare ad una partita di poker, dove il linguaggio del corpo ci può far capire molti dettagli ulteriori della persona con cui stiamo parlando. In molti hanno ad esempio riscontrato lo sviluppo di una maggiore disponibilità verso la controparte: oltre a permettere contatti anche al numero personale, molti Loss Adjuster sono diventati più elastici e flessibili nella gestione del loro lavoro. Un po’ come, in generale secondo le ultime notizie, è cambiato l’atteggiamento degli italiani, che si stanno dimostrando più comprensivi e meno intolleranti di fronte alle difficoltà burocratiche.

 

LE MORTI INDIRETTE DEL COVID-19: LO STUDIO SUL CALO DEI RICOVERI PER INFARTO

Uno studio italiano pubblicato sul New Journal of Medicine ha appurato il calo di ricoveri per infarto nel pieno dell’emergenza coronavirus. Non perché fossero diminuiti i casi, ma perché era molto alta la paura del contagio.

 

“State a casa”: questo il messaggio che è stato dato fin dai primi momenti in cui l’Italia ha compreso che il Covid-19 non era una banale influenza. Stare a casa per non contagiare e per non essere contagiati, anche in ospedale. Il pronto soccorso è diventato agli occhi di molti cittadini come il luogo simbolo da evitare per non contrarre il virus. Con il risultato che molte patologie sono state quindi trascurate, una su tutte la sindrome coronarica acuta (ACS), ovvero l’infarto. Un dato che è stato appurato dallo studio “Reduced rate of Hospital admission for ACS during Covid-19 Outbreak in Northern Italy” condotto da Ovidio De Filippo, Fabrizio D’Ascenzo e da Gaetano Maria De Ferrari – Professore di Cardiologia all’Università di Torino e Direttore di Cardiologia della Città della Salute – e pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine[1]. Il team ha eseguito un’analisi retrospettiva delle caratteristiche cliniche e angiografiche di pazienti consecutivi che sono stati ricoverati per ACS in 15 ospedali del nord Italia, verificando un tasso effettivamente ridotto di un terzo dei ricoveri ospedalieri. Sanità 360° ne ha parlato direttamente con il Prof. De Ferrari.

Gaetano De Ferrari, Professore di Cardiologia all’Università di Torino e Direttore di Cardiologia della Città della Salute

Come è nato e si è sviluppato questo studio?

Lo studio nasce da una forte impressione soggettiva, nata da una breve consultazione con colleghi e amici. Parlando con loro abbiamo notato che in diversi centri si stava verificando una marcata riduzione di ricoveri di pazienti per infarto. È quindi nata l’idea di approfondire il fenomeno, facendo un’analisi precisa e accurata sulla scomparsa di una fetta importante di pazienti affetti da Sindrome Coronarica Acuta.

Abbiamo confrontato i ricoveri avvenuti nel periodo che va dal primo paziente di Codogno ( 20 febbraio ) fino alla fine di marzo 2020 con quelli avvenuti in due periodi distinti: nello stesso arco temporale nel 2019 e nel periodo dal 1 gennaio al 20 febbraio del 2020. I due periodi di confronto avevano un simile numero di ricoveri quotidiani, viceversa negli ospedali coinvolti nella ricerca -che si trovano prevalentemente in Piemonte ed Emilia-Romagna unitamente a pochi ospedali lombardi, toscani e laziali – si è rilevata una riduzione importante di oltre un terzo (33%) dei ricoveri per infarto. In alcuni casi, come nell’Ospedale di Vercelli, la riduzione dei ricoveri per infarto è arrivata al 50%. Andando poi a suddividere il periodo analizzato usando l’inizio del lockdown come spartiacque, osserviamo nei giorni dopo il 6 marzo una riduzione ancor più marcata.

Lo studio ha rilevato altri fenomeni oltre alla riduzione dei ricoveri?

Anche se non abbiamo dati esatti su tutti i pazienti, abbiamo osservato come sono numerosi i casi di ricoveri tardivi. Appurato che sono meno i pazienti che si sono recati in Ospedale, emerge un altro dato preoccupante: anche gli infarti che arrivano, tendono ad arrivare più tardi rispetto all’insorgenza dei sintomi. Nel caso dell’infarto STEMI (infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST ndr), si dice che il tempo è muscolo”: infatti ogni minuto che passa è un piccolo pezzo di cuore che muore. La precocità delle cure è quindi fondamentale.

Una cosa è infatti curare un infarto dopo tre ore, un’altra è dopo tre giorni.

Il risultato complessivo mostra che almeno un paziente su tre con infarto non si è recato in ospedale, e di quei due che sono stati ricoverati uno sembra essere arrivato troppo tardi.

Perché concentrarsi solo sugli infarti? Avete notato stessa tendenza in altre patologie?

L’infarto è una delle più evidenti patologie “tempo dipendenti”. Quindi il ritardo o l’assenza di ricovero, oltre ad essere stati particolarmente marcati, sono anche forieri di evoluzioni negative. In generale si sono ridotti tutti i ricoveri urgenti legati a molte altre patologie. Le sedi di Pronto Soccorso nel mese di marzo delle zone molto interessate dal Covid-19, Lombardia, Piemonte, parte dell’Emilia e del Veneto, erano quasi prive di pazienti non Covid. Passata la fase di angoscia in cui i Pronto Soccorsi erano pieni di pazienti contagiati, dalla fine di marzo, quando gli accessi Covid si sono ridotti, i pazienti pur di non rischiare di contrarre il virus non cercavano il ricovero per altre patologie ed i Pronto Soccorsi erano quasi deserti. Una tendenza che noi abbiamo accertato riguardare i ricoveri per infarto, ma che ha sicuramente toccato tutte le malattie tempo dipendenti, come ictus, embolie polmonari, patologie di tipo vascolare, ad esempio la rottura di un aneurisma.

Quale il motivo? Solo paura?

Noi non possiamo dire con certezza cosa abbia spinto a non venire i pazienti che non sono giunti, tuttavia, interrogando i pazienti arrivati tardi, abbiamo avuto conferma che il ritardo nel cercare soccorso era dovuto alla paura di andare in ospedale e contrarre il virus. I pazienti che abbiamo intervistato hanno raccontato di aver sopportato il dolore a lungo per evitare di venire al Pronto Soccorso, fino a quando questo non è diventato insopportabile.

Paura irrazionale o motivata?

È una paura che soprattutto nella prima fase della pandemia era oggettivamente motivata. Nelle prime fasi dell’emergenza Coronavirus recarsi in Pronto Soccorso in alcune zone poteva essere rischioso. Ma dal periodo che va circa dal momento del lockdown, quando quasi tutti gli ospedali si erano ormai già dotati di percorsi separati per pazienti Covid o presunti tali, la paura era poco motivata e soprattutto il rischio contagio era minore rispetto a quello legato all’infarto non curato. Mettendo sul piatto della bilancia il rischio di contrarre il virus andando in un buon ospedale che ha organizzato percorsi ad hoc a confronto con il non curare una patologia grave, beh, è più alto il rischio di tenersi una patologia grave non curata. In medicina, come in tutto nella vita credo, è spesso una questione di rapporto tra rischi e benefici.

Come si può combattere questa paura?

Un messaggio forte da dare è che questa preoccupazione deve essere completamente fugata.

Sicuramente un ruolo importante è quello dei mezzi di comunicazione, che possono diffondere la notizia che soprattutto negli ospedali di una certa rilevanza sono stati disegnati dei percorsi per proteggere il più possibile dai rischi infettivi, evidenziando che in generale i rischi legati ad una malattia seria sono importanti e maggiori del rischio infettivo.

Passata questa ondata di paura, potrebbe esserci un rebound, un rimbalzo? Gli ospedali come possono prepararsi a questa evenienza?

Per la verità io credo che siamo pronti ad affrontare un rebound. Le difficoltà che gli ospedali potrebbero trovarsi ad affrontare sono che in alcune strutture non tutta la cardiologia e le terapie intensive sono state liberate dal Covid. Le unità coronariche infatti si sono rivelate strutture estremamente adatte per far fronte ai ricoveri Covid, essendo intensive ma un gradino sotto la rianimazione. Strutture che quindi idealmente potevano raccogliere pazienti con problemi gravi di respirazione a causa del Covid, e che per questo sono state riconvertite totalmente o in parte. Quello che gli ospedali possono fare ora, ovviamente entro i limiti possibili, è riassegnare alla cardiologia quelle sezioni trasformate in unità Covid.

Nello studio parlate anche del rischio di una conseguente “nuova epidemia cardiologica”…

Le cure, sono state meno efficaci, quindi i pazienti che hanno avuto una cura tardiva non hanno potuto trarne i soliti benefici. In maniera colloquiale si parla di un paziente che “sull’infarto ci ha camminato sopra”: come tutte le patologie, una malattia trascurata avrà conseguenze maggiori di una prontamente affrontata. Questo si verifica anche con lo stesso Covid-19.

Ma il modello italiano ha funzionato o meno?

Io credo che gli ospedali abbiano funzionato complessivamente bene. C’è stato sicuramente un difetto in alcuni casi di protezioni adeguate, che ha portato ad un eccesso di contagio all’interno del personale sanitario. Quindi, direi che nel far fronte a questo tsunami senza precedenti, gli ospedali hanno risposto abbastanza bene, ma le protezioni “interne” non sono state adeguate. Ad essere stata estremamente inadeguata è l’assistenza extraospedaliera. Con una lodevole eccezione di parte del Veneto. Abbiamo aspettato che i pazienti si aggravassero nelle loro case, arrivando al punto di ricoverarli quando ormai erano in condizioni gravissime, senza peraltro offrire una decorosa assistenza ai pazienti rimasti nelle loro abitazioni. La Lombardia in particolare ha commesso questo errore metodologico, quello di tenere i contagiati dal Covid a casa facendoli arrivare negli ospedali quando ormai le loro condizioni erano estremamente gravi.

Ecco, mi sento di dire che l’assistenza extraospedaliera è stata un grossissimo flop.

Dobbiamo constatare che paesi meglio organizzati, come la Germania, hanno disposto cure extraospedaliere migliori e protetto meglio il proprio personale sanitario. In Italia la quota di personale infettato e ammalato e persino deceduto è impressionante.

Un flop dovuto ad una impreparazione nei confronti di evento così raro, alla sottovalutazione del rischio o a un problema strutturale?

A mio parere, una combinazione di tutte e tre le cose. Sicuramente all’inizio il virus è stato sottovalutato e non ci si è fatti trovare preparati. Molte regioni, poi, come la Lombardia, hanno fatto molto affidamento sui grandi ospedali come punta di diamante della loro attività svilendo un po’ il ruolo della medicina generale. Questo è un problema chiaramente antecedente al Covid. Per esempio, la Germania, ha avuto qualche settimana in più per prepararsi e dispone di un sistema extraospedaliero che rispetto al nostro è anni luce avanti. Questi fattori hanno contribuito alla differenza. Quindi in Italia, la carenza maggiore è stata nell’organizzazione territoriale e nel sistema extraospedaliero.

 

 

[1] Reduced Rate of Hospital Admissions for ACS during Covid-19 Outbreak in Northern Italy  (link)

INFERMIERI: PROTAGONISTI SILENZIOSI DELLA SICUREZZA

Vicini ai malati nel percorso assistenziale e punto focale nelle misure di prevenzione: gli infermieri sono una categoria sempre più importante nella sicurezza delle cure.

 

Ogni giorno gli infermieri sono attori primari nel funzionamento del sistema salute. Nella giornata internazionale a loro dedicata, perciò, non è retorico ma dovuto il riconoscere esplicitamente a queste figure professionali non solo il contributo nell’erogazione delle cure, ma la crescita costante in competenza e consapevolezza.

Nel confronto costante con gli operatori sanitari coinvolti nei percorsi di miglioramento del risk management sanitario – coordinati da Sham negli ultimi anni -, abbiamo toccato con mano la passione e la competenza degli infermieri nel mappare il rischio clinico nei processi che sovrintendevano quotidianamente, e nell’implementare azioni di miglioramento destinate a ridurlo progressivamente.

Seguendo l’esempio di tutte le sanità avanzate, anche in Italia gli infermieri hanno accumulato una crescente sicurezza e autonomia, oltre che un progressivo riconoscimento del loro ruolo all’interno delle équipe.

Il contributo nel rendere le cure più sicure è solo uno dei tanti, silenziosi, ambiti nei quali abbiamo visto gli infermieri fare la differenza nella sicurezza delle cure.

A fianco di questa poco pubblicizzata ma fondamentale attività va, inoltre, ricordata la più visibile e apprezzata tra le caratteristiche del loro lavoro: la prossimità. L’infermiere è il punto di riferimento del percorso assistenziale, colui che in virtù di questa vicinanza (che è anche emotiva e non solo legata all’esecuzione di uno o più compiti), percepisce i bisogni del paziente e, per effetto di questo, rappresenta non solo un punto di congiunzione tra medico e malato, ma un vero e proprio snodo, un fulcro attorno al quale spesso si giocano le relazioni e i rapporti tra azienda/medico/persona assistita e familiari.

Pochi si accorgono e pochi riconoscono agli infermieri la complessità e profondità del loro impatto, eppure essi condividono alla pari con tutti gli operatori sanitari il merito di una sanità che è tra le migliori al mondo, come ha saputo dimostrare anche nel difficilissimo frangente del COVID-19.

Perciò, vogliamo estendere il nostro grazie all’intera categoria e, personalmente, ai tantissimi infermieri che ci hanno seguito e guidato nei tanti progetti e interventi che hanno reso la gestione del rischio più forte nella sanità italiana e i processi di cura ed assistenza più sicuri.

Anna Guerrieri e Alessandra Orzella, Risk Manager di SHAM