FONDAZIONE GEMELLI: LA FIDUCIA DEGLI OPERATORI È FATTORE DI PREVENZIONE

I sanitari seguono le procedure che contribuiscono a creare”. La strategia, le parole chiave e i casi studio della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma per superare la logica della colpa e far abbracciare al personale l’Incident reporting come cultura e prassi quotidiana

 

“Le procedure di sicurezza devono essere pezzi di pratica molto prima che pezzi di carta”. Così Giuseppe Vetrugno, Risk Manager della Fondazione Policlinico Gemelli e Professore Associato di Medicina Legale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Gli operatori sanitari devono venir coinvolti durante il disegno e in fase di stesura e devono ricevere riscontri tempestivi nella loro implementazione. Per far questo abbiamo bisogno di creare un clima di fiducia, fiducia che è la prima parola chiave all’interno della gestione del rischio. Sappiamo, infatti, che la segnalazione dell’evento avverso è fondamentale per affrontare il rischio clinico. Solo le segnalazioni del personale possono offrire i dati certi sui quali basare le azioni di miglioramento. Il personale, però, deve avere la certezza di essere tutelato dalla struttura, se vogliamo che riporti senza paura o ritrosie gli eventi avversi”.

Per ottenere questa fiducia, già nel 2016 – cioè ancor prima che la Legge 24 venisse promulgata – la Fondazione Gemelli ha rinunciato formalmente al diritto di rivalsa nei confronti dei suoi dipendenti e dei suoi collaboratori. “Di fatto – spiega Vetrugno – è come se la Fondazione dicesse ai propri dipendenti esercenti le professioni sanitarie: «Voi preoccupatevi solo di dare il meglio; se qualcosa va storto la responsabilità l’assume la struttura. Voi siete tutelati comunque». È stata una buona intuizione – prosegue il risk manager – perché dal punto di vista economico, con l’attuale assetto normativo, la rivalsa non conviene neppure, mentre, dal punto di vista della fiducia, la rinuncia a rifarsi sui dipendenti in caso di sinistro crea una grande effetto motivazionale. Le persone che lavorano si sentono e sono protette”.

La fiducia, però, non è l’unico ingrediente necessario. “Segnalare eventi avversi urta, spesso, la sensibilità dei professionisti e, non di rado, ferisce l’orgoglio. Medici, infermieri e tecnici sanitari devono capire perché è necessario farlo; devono entrare nei meccanismi della gestione del rischio guardandoli dall’interno”. Per far sì che questo proposito non rimanga lettera morta si devono tenere a mente altre due parole chiave: il tempo e la formazione.

Al Gemelli ci assicuriamo di rispondere ad ogni segnalazione nell’arco delle 48 ore. Ed è molto importante che ciò avvenga. I sanitari devono avere il riscontro delle loro azioni; vedere che quello che viene mandato dalla periferia trova una risposta immediata nel centro.  Dare una risposta veloce è un modo di riconoscere il contributo del singolo nel progresso generale delle sicurezze. Un altro è coinvolgere direttamente gli operatori sanitari nella stesura delle procedure di sicurezza. Un lavoro difficile che diventa, di fatto, una grande opera di formazione capillare a piccoli gruppi di operatori per volta che, confrontandosi sul rischio, offrono soluzioni che possono essere adottate dall’intera struttura”.

Nella storia recente del Policlinico Gemelli ci sono diversi casi studio che provano come si può applicare in pratica questa teoria.

Il primo caso riguarda il trattamento dei pazienti ricoverati al Gemelli che manifestino, oltre alla malattia che è all’origine del ricovero, anche una patologia psichiatrica. I nostri psichiatri ambulatoriali hanno contribuito a realizzare una procedura che, oltre a migliorare l’offerta assistenziale per questa tipologia di pazienti quando degenti presso un Policlinico non direttamente collegato ad un SPDC, ha posto le premesse per un’integrazione concreta tra Policlinico e gli SPDC del territorio, che, già per alcune realtà, si è tradotta in una prassi di ottimizzazione dei trasferimenti di pazienti tra Presidi dotati di SPDC e Gemelli e viceversa, a seconda delle esigenze dei pazienti.

Il secondo caso nasce dall’aumentata sensibilità degli infermieri sul tema delle cadute stimolata dalle segnalazioni che ha suggerito loro di estendere la portata dall’educazione sanitaria per la prevenzione delle cadute ospedaliere anche in ambito ambulatoriale, promuovendo la realizzazione di una informativa mirata ai pazienti che tornano a casa contenente piccoli suggerimenti comportamentali da mantenere a domicilio per limitare  il rischio cadute anche oltre le mura della struttura sanitaria. Questo contributo del personale, del resto, non è stato un caso isolato e improvviso, ma il risultato di un percorso. Già prima, infatti, il Gemelli non si era accontentato del formalismo ‘difensivo’ delle procedure cartacee ma aveva provato a sviluppare, con il personale dei reparti, una serie di azioni pratiche: dalla riduzione dell’altezza dei letti al contenimento del tempo di attesa tra la chiamata e l’arrivo dell’infermiere per alzarsi dal letto. Sempre con gli infermieri abbiamo verificato “sul campo”, durante i turni notturni, l’applicazione e l’applicabilità degli accorgimenti e siamo stati premiati con una riduzione dell’entità delle cadute in determinate fasce orarie. Un risultato che ha ulteriormente incoraggiato il personale a fare segnalazioni e suggerimenti per contribuire al miglioramento della sicurezza.

Anche il terzo caso nasce da una segnalazione di evento avverso che ha portato al disegno sperimentale di introduzione di due addetti alla riabilitazione motoria e respiratoria in terapia intensiva. Il razionale che sostiene la sperimentazione è la previsione che, grazie ad una riabilitazione precoce, si potrà ridurre il tempo di degenza, migliorare il recupero del paziente e limitare il rischio di contrarre infezioni.

Un ulteriore disegno sperimentale prevede la prossima introduzione di un sistema di ripresa audio-video in una sala operatoria, grazie al quale sarà possibile per l’equipe rivedersi in azione, valutare la coordinazione tra i membri e, ove possibile, migliorare l’omogeneità delle azioni, e anche di un sistema di ripresa audio-video dei colloqui informativi funzionali all’acquisizione dei consensi informati ai piani di cura in una specifica unità operativa.

“Esiste un minimo comun denominatore di tutti questi esempio – conclude Vetrugno – ed è l’attenzione all’unicità delle persone. Non esistono interventi di Risk Management preconfezionati. Se vogliamo sviluppare una procedura che funzioni, dobbiamo partire sempre dalle persone che saranno chiamate a farla funzionare: dalla storia, dalle loro opinioni, dalla loro fiducia in quello che stanno facendo”.