IL PREMIO PER I PROGETTI DI RISK MANAGEMENT E PREVENZIONE

Tempo fino al 30 settembre per presentare la candidatura al Premio SHAM 2019. 6mila euro ai vincitori da reinvestire in prevenzione. Per la prima volta il Premio si apre anche alle strutture private abbracciando, così, l’intero ecosistema sanitario

 

Sarà il quarto anno per il Premio SHAM in Italia, l’iniziativa organizzata dalla Mutua francese in partnership con Federsanità ANCI e, dal 2019, con l’Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari. Nel corso delle precedenti tre edizioni il Premio ha permesso di conoscere e confrontare oltre 100 progetti di prevenzione, gestione del rischio e miglioramento nella sicurezza delle cure. Ci sono tre categorie di partecipanti – strutture pubbliche, private e private senza scopo di lucro – e i progetti presentati negli anni precedenti spaziavano dall’introduzione di alert informatici in Pronto Soccorso alla pulizia dei cateteri venosi.

“Il Premio, che in Francia è giunto alla 19esima edizione – spiega la Risk Manager di SHAM Anna Guerrieri – è uno strumento concreto per diffondere la cultura della sicurezza e della gestione del rischio. Alle aziende o strutture sanitarie non costa nulla, perché possono partecipare solo progetti che sono già in corso e che vedono il coinvolgimento degli stessi professionisti sanitari che erogano quotidianamente cure e servizi. Partecipare al Premio significa, infatti, offrire un riconoscimento dell’investimento fatto dalla struttura sanitaria nell’ambito della sicurezza al lavoro di sanitari e Risk Manager. In secondo luogo, il Premio è l’occasione per presentare buone pratiche locali a livello nazionale, comunicarle tra gli addetti ai lavori e sulla stampa specializzata e offrire, così, la possibilità ai progetti sviluppati sul territorio di divenire modelli adottati in tutto il Paese. Infine, i tre premi da 6mila euro vengono reinvestiti nel progetto di prevenzione stesso, creando un circuito virtuoso”.

A questo link il Regolamento e i Moduli per le diverse categorie di partecipanti. A questo link, invece, sono raccolte le schede tecniche dei progetti 2018 dalle quali si coglie la varietà dei progetti presentati e degli ambiti nei quali andavano ad incrementare la sicurezza di pazienti ed operatori.

Le candidature potranno essere presentate entro il 30 settembre 2019.

I SOCIAL MEDIA FANNO BENE ALL’INFORMAZIONE SANITARIA?

Intervista al Professor Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di Informatica medica dell’Istituto “Mario Negri” di Milano

 

Facebook non nuoce gravemente alla salute. Nemmeno Twitter, Instagram e tutti gli altri Social network. Anzi fanno bene. Il professor Eugenio Santoro lo sostiene da tempo e lo afferma sulla base di dati scientifici. Infatti, il responsabile del laboratorio di Informatica medica del dipartimento di Salute Pubblica dell’IRCCS, l’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano, da anni analizza il rapporto tra i Social media, la comunicazione sanitaria e la promozione della salute. E ci spiega quali sviluppi sono in atto.

In che modo Facebook, Twitter, Google+, LinkedIn, YouTube e altri strumenti social stanno trasformando la comunicazione, la formazione e l’assistenza in Sanità?

«Partendo dalla formazione, quello che è cambiato è sicuramente l’aggiornamento con le fonti che il medico usa e che, da tempo ormai, erogano i contenuti attraverso i social media: questa modalità facilita il reperimento delle informazioni. Nel campo della comunicazione – invece – opinion leader, medici affermati, in parte anche le istituzioni, ma soprattutto le associazioni sanitarie hanno iniziato a utilizzare i social media affinché il cittadino possa essere cosciente delle malattie a cui potrebbe andare incontro se dovesse mantenere o avere alcuni comportamenti. Si tratta di una prassi molto utilizzata all’estero e, di recente, pure in Italia».

Social media e comunicazione sanitaria. Che relazione ci può essere tra le nuove piattaforme di socializzazione e la promozione della salute?

«Esistono studi realizzati soprattutto all’estero (perché in Italia siamo ancora indietro in questo ambito) che dimostrano come l’uso dei Social media ha consentito di ottenere risultati migliori rispetto all’utilizzo degli strumenti tradizionali. Però bisogna specificare che tali studi non si riferivano ai Social media in generale, ma all’uso più specifico inteso, ad esempio, alla creazione di community come i gruppi di Facebook. Le ricerche hanno dimostrato che se aggrego più persone e fornisco loro una serie di informazioni – ad esempio consigli su come dimagrire o mantenersi in forma – ottengo risultati positivi determinati dalla possibilità di partecipare e condividere il proprio stato di salute.

È dimostrato scientificamente che le community, costruite sui Social, portano con più facilità il cittadino a modificare il comportamento e lo stile di vita. Tali studi sono stati applicati per dimostrare, ad esempio, l’efficacia della diminuzione del peso e la lotta al fumo, ma anche per la gestione di problemi legati all’ansia e alla depressione. Oggi quando si parla di Social media se ne discute in termini negativi. Ma, in realtà, sfruttando le stesse leve dell’emulazione si ottengono buoni risultati. È molto più facile demonizzare i Social che valorizzarne le potenzialità».

In che modo le aziende sanitarie o gli enti privati, che si occupano di Salute e prevenzione, possono migliorare oggi la comunicazione sanitaria 2.0?

«Bisogna fare una distinzione tra comunicazione esterna, rivolta ai cittadini, e quella interna, ovvero tra i componenti delle aziende. Uno degli aspetti più interessanti riguarda la comunicazione esterna: abbiamo realizzato uno studio nel quale è stato analizzato quante aziende usano i Social media, in che modo li usano e che esito ottengono. Ad esempio: quante persone vanno a leggere i post o li condividono. I risultati sono stati questi: le Asl sono presenti sui Social media, almeno su una piattaforma come Instagram o Linkendin. Tra i preferiti c’è Facebook, poi Twitter e Instagram. Ma, in realtà, le Asl prevalentemente utilizzano una comunicazione celebrativa e autoreferenziale, poco diretta al cittadino che invece deve sapere – ad esempio – a quali rischi va incontro se continua ad avere un certo stile di vita.

Questo genere di informazione manca. Anche in ambito sanitario resiste lo stesso trend di altri settori, ovvero che è Instagram il Social più commentato e citato, quello che funziona di più che non è però il più usato: lo utilizza, infatti, solo il 10% delle Asl anche se è quello che produce risultati migliori in termini di comunicazione. La fotografia è questa. Allora, quello che le Aziende sanitarie possono fare è dotarsi di competenze specializzate e ripensare a un Piano di comunicazione che integri i Social media. In sintesi: servono esperti di comunicazione sanitaria 2.0».

È necessario stabilire nuove regole per gestire forme di comunicazione con strumenti sempre più innovativi?

«Per quanto riguarda la comunicazione nei confronti dei cittadini non servono nuove regole ma nuove procedure e una nuova organizzazione perché in realtà manca il contesto in cui poter utilizzare questi strumenti. Per una comunicazione più partecipata serve anche un piano editoriale che sia ben fatto, il cui obiettivo è quello di creare quel rapporto di fiducia con i cittadini che al momento è piuttosto basso. Le istituzioni devono adottare un piano editoriale e mettere al centro la salute del cittadino. In che modo? Mettendo in rete post che aiutano a capire che cosa fare se non mi voglio ammalare o quali sono i fattori di rischio se adotto tale comportamento. Bisogna smettere di usare questi strumenti per divulgare l’orario di apertura dello sportello o promuovere servizi. I post, invece, dovrebbero parlare di prevenzione e salute. I Social consentono di fare ciò e di farlo a costo zero. Allora, perché non usarli con tale finalità?».

ICA: OBIETTIVO MENO 70 PER CENTO. A COSTO ZERO

Presentato in Sicilia uno studio che conferma lo spazio di miglioramento. Dai dati forniti congiuntamente da HCRM e SIAARTI, sono 11 i milioni risparmiati ogni 4 investiti in alcune tra le più semplici misure di prevenzione: dal lavaggio delle mani alla normotermia in sala operatoria. E dal Meridione si fanno strada un nuovo approccio al Risk Management Sanitario e nuove occasioni di incontro

 

“Il riscaldamento del paziente in sala operatoria, il lavaggio delle mani, i programmi di corretta somministrazione degli antibiotici sono solo alcuni esempi di interventi economici o addirittura a costo zero che la Sanità Italiana può adottare in maniera decisa e capillare con un ritorno di prevenzione altissimo. Se cominciamo a ragionare in quest’ottica possiamo sperare di ridurre del 70 per cento l’insorgere delle Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA)”. A dirlo è Alberto Firenze, Assistant Professor all’Università di Palermo e Presidente dell’Associazione Scientifica Hospital & Clinical Risk Managers (HCRM). Giovedì 13 giugno, a Catania, è stato presentato uno studio realizzato dalla stessa HCRM assieme alla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI).

“Il razionale del progetto normotermia in regione Sicilia è stato quello di elaborare un protocollo operativo per la gestione della normotermia del paziente chirurgico, che riprenda le raccomandazioni presenti nelle BPC SIAARTI nell’ottica della prevenzione dei rischi per il paziente come da linee di indirizzo HCRM.

Il progetto è stato avviato in tre ospedali di riferimento della regione Sicilia, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Paolo Giaccone di Palermo, l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Vittorio Emanuele di Catania e l’Ospedale San Vincenzo di Taormina.

È stato previsto lo sviluppo di una serie di fasi consequenziali. Dapprima è stato svolto il monitoraggio iniziale per verifica dello stato dell’arte nelle tre strutture ospedaliere partecipanti attraverso uno studio osservazionale condotto per un’intera settimana su tutti gli interventi chirurgici di una o due sale operatorie campione. Successivamente, è stata condotta la formazione del personale ospedaliero tramite incontri dedicati al fine di sensibilizzare sulla tematica ed illustrare il protocollo operativo. Infine, è stato svolto il monitoraggio sperimentale con una nuova analisi osservazionale nei medesimi reparti campione per verificare gli eventuali miglioramenti ottenuti in termini comportamentali e di frequenza di ipotermia accidentale.

I risultati ottenuti dal confronto del monitoraggio iniziale e sperimentale suggeriscono che la corretta gestione della normotermia perioperatoria è strettamente correlata al monitoraggio continuo della temperatura centrale del paziente, inoltre una percentuale elevata di ipotermie è stata riscontrata nei primi 30 minuti dall’induzione dell’anestesia suggerendo che la fase di preriscaldamento è fondamentale per contrastare l’abbassamento termico successivo all’induzione dell’anestesia.

In ultima analisi possiamo affermare che lo Studio ha fornito informazioni importanti facilitando la comprensione di processi e dinamiche all’interno dei blocchi operatori. Pertanto l’implementazione del protocollo operativo porterebbe a solide prove di efficacia clinica proiettate verso l’Evidence Based Medicine”.

“Le ICA non sono solo una grave minaccia per la salute del paziente che la presenza crescente di microrganismi resistenti rende ancora più seria – spiega Firenze che è, anche, membro, in qualità di esperto del Ministero della Salute, dell’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità – ma anche una minaccia alla sostenibilità finanziaria della sanità.

La più recente indagine su tutto il territorio nazionale copre il periodo dal 2004 al 2011 e fissa intorno al 3 per cento i sinistri correlati alle Infezioni ospedaliere. Le nostre più recenti analisi, però, alzano, in alcuni casi, questa percentuale al 6,4. Si tratta di una quota significativa che incide in maniera palpabile sulle risorse destinate alle cure”.

La portata dello studio presentato a Catania va, però, oltre il tema circoscritto delle ICA. “Per noi è, anche, l’occasione di dimostrare la validità di un approccio più concreto al Risk Management. Un approccio che accoglie appieno lo spirito e le previsioni della Legge 24/2017. Il periodo che stiamo vivendo verrà ricordato come un bivio nella storia del Risk Management in Italia. Le pedine, infatti, sono tutte sulla scacchiera: abbiamo le conoscenze, abbiamo i requisiti di legge, abbiamo le tutele – offerte sempre dalla legge – per pazienti e professionisti sanitari. Per queste motivazioni la rete di Risk Manager, che l’associazione HCRM sta costruendo in Italia, pensa che non servano altri convegni: servono piani operativi. Sappiamo già quasi tutto su cosa funziona o cosa no, cosa è pericoloso, dove migliorare e come. Dobbiamo solo attuarlo e contestualizzarlo”.

“Il Sud Italia è il territorio nel quale la consapevolezza del rischio è meno diffusa e il rischio della ICA più sottostimato; eppure è proprio da qui che partiamo per sviluppare una nuova formula di Risk Management”.

“Questa formula – spiega Firenze – si poggia su tre idee di fondo che, per varie ragioni sia economiche che di correttezza verso i pazienti, alle Aziende del Servizio Sanitario Nazionale, risulta necessario:

  1. mettere fine alle varie forme di autoassicurazione esistenti;
  2. puntare sulla prevenzione nelle persone sane prima che si ammalino (perché non si può aspettare, prima di intervenire, che una persona si ammali esattamente come non si può aspettare che un incidente si verifichi senza fare nulla per impedirlo);
  3. costruire percorsi pratici concreti di prevenzione sia negli ospedali che sul territorio. Percorsi che siano stabili nel tempo e omogenei, a livello nazionale, negli interventi e nel linguaggio”.

“L’HCRM – conclude Firenze – sta cercando di costruire queste proposte in maniera condivisa, mettendo assieme le persone che, in tutta Italia, si scontrano ogni giorno con il rischio e le sue conseguenze”.

Prossimo banco di prova sarà, perciò, l’HACKATHON dedicato al contenimento delle Infezioni Correlate all’Assistenza che si terrà all’Ospedale del Mare di Napoli i 4 e 5 novembre prossimi. Un appuntamento concepito e svolto nel Meridione per trovare soluzioni di miglioramento applicabili in tutta Italia.

PIEMONTE: AL VIA IL CENTRO REGIONALE PER LA GESTIONE DEL RISCHIO SANITARIO

Il Coordinatore Franco Ripa: “Partiamo da un’ottima tradizione e abbiamo davanti a noi un grande lavoro: consolidare la gestione del rischio regionale per migliorare la qualità e la sicurezza dell’assistenza erogata. Molti gli obiettivi a breve-medio termine: confronto con le Aziende Sanitarie sulla programmazione 2019/2021, mappatura dei processi, formazione sul campo audit/feedback e, anche, collaborazione con il difensore civico. La grande risorsa sono proprio i Risk Manager e i professionisti delle Aziende Sanitarie”

 

Nel marzo del 2019 è stato istituito dal Piemonte il Centro regionale per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente. “Un organo multidisciplinare – spiega il Coordinatore Franco Ripa – che si propone di strutturare un sistema omogeneo per la qualità e la sicurezza dei pazienti e di armonizzare un modello di coordinamento per tutte le Aziende Sanitarie regionali”.

“In quest’ottica, puntiamo a sviluppare un metodo strutturato e condiviso per la gestione del rischio sanitario. Quello che il Centro Regionale si propone è di dare alle Aziende Sanitarie una matrice comune, che non significa necessariamente la standardizzazione delle prassi operative. Il fine è di fissare delle priorità – progetti, analisi, azioni o aree di miglioramento – per garantire la continuità delle azioni. Se i progetti sono troppo specifici, c’è la possibilità che il cambio di personale o altri eventi facciano perdere attenzione o portino a una loro interruzione. E possiamo dire che, quando gli obiettivi e i progetti vengono pianificati a priori, allora si possono ottenere davvero risultati continuativi nel tempo”.

“Il Piemonte, in questo ambito, presenta un percorso già evoluto. Nella Regione, infatti, la configurazione dell’odierno sistema di Risk Management si può far risalire già al 2008, con l’istituzione delle Unità operative di Gestione del rischio in ogni singola Azienda Sanitaria. Il percorso è proseguito con il piano regionale 2012/2015 che implementava il modello di sicurezza delle aziende sanitarie e, poi, nel 2017 con il Programma Regionale del Rischio Clinico. L’istituzione del Centro regionale, nel 2019 rappresenta, perciò, solo l’ultimo passo in una, ormai, lunga tradizione di miglioramento e si cala a fianco di una Rete di Risk Manager già attiva e funzionante”.

“Dal punto operativo, perciò, il nuovo Centro ha l’opportunità di calarsi in un contesto molto positivo dove Regione, Aziende Sanitarie e Risk Manager lavorano in assoluta condivisione. Il valore aggiunto che possiamo dare è fissare la direzione del lavoro, rendendo esplicito il modello di riferimento. Ovviamente il Centro regionale è al suo avvio, ma possiamo già fissare precisi obiettivi di breve-medio raggio”.

Dott. Franco Ripa, Coordinatore del Centro regionale per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente

“È da sfruttare l’alto rapporto costi-benefici della formazione sul campo, mettendo in risalto una tecnica “chiave” sulla quale punteremo in maniera estesa ovvero l’audit/feedback. L’Audit è un processo di miglioramento e rappresenta uno dei punti compiuti per monitorare periodicamente l’applicazione delle procedure di sicurezza messe in atto. Altra esigenza è definire gli ambiti fondamentali operativi sui quali operare per primi, quali la Prevenzione delle Cadute, la Scheda Unica di Terapia o le procedure di Sicurezza Chirurgica, senza dimenticare il ruolo dei sistemi informativi a supporto. Inoltre vogliamo anche estendere il raggio oltre l’immediato ambito sanitario andando a ricercare la collaborazione nella prassi quotidiana con ruoli e figure professionali importanti come quella del difensore civico”.

“A prescindere dai singoli obiettivi – conclude Ripa – ci preme condividere e diffondere un metodo che si basa su un approccio sistemico e misurabile. Più un progetto è implementato dall’intero sistema regionale e basato su dati credibili, maggiori sono le possibilità di governarlo e di creare valore per la qualità e la sicurezza delle cure. La grande risorsa sono proprio i Risk Manager e i professionisti delle Aziende Sanitarie”.

 

IL VALORE METODICO DELLA RIPETIZIONE

Il numero odierno di Sanità 360° prosegue la sua indagine sulle Infezioni Correlate all’Assistenza

 

Secondo Alberto Firenze, Assistant Professor all’Università di Palermo e Presidente Nazionale dell’Associazione Scientifica Hospital & Clinical Risk Managers (HCRM), la maggior parte delle infezioni ospedaliere è prevenibile, purché si mettano in atto, ogni volta e in ogni contesto sanitario, delle semplici ma determinanti misure di prevenzione. Quella della costanza, metodo e omogeneità degli interventi è una necessità che viene sollevata spesso nel dibattito sulla Gestione del Rischio. Gli stessi elementi emergono, infatti, anche nel ragionamento di Franco Ripa, il Coordinatore piemontese del neonato Centro Regionale per la Gestione del Rischio e la Sicurezza del Paziente. Un organo che punta a sviluppare un metodo strutturato e condiviso per la gestione del rischio sanitario a livello regionale.

In questo numero pubblichiamo anche un’approfondita disamina e, per molti versi, un sorprendente punto di vista sul rapporto tra Social Media e Informazione sanitaria nell’intervista al Professor Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di Informatica medica dell’Istituto “Mario Negri” di Milano.

Da ultimo un elenco dei buoni motivi per i quali chiunque si impegni quotidianamente per rendere le cure più sicure dovrebbe prendere in considerazione di candidare i propri progetti di miglioramento al Premio Sham per la prevenzione dei rischi: un’iniziativa unica in Italia che non costa nulla ma porta molti benefici alla prevenzione e contribuisce a diffondere la cultura della sicurezza in Italia.

Buona lettura

 

Roberto Ravinale

Direttore Esecutivo di Sham in Italia

GESTIONE DEL RISCHIO: I DATI PER INTERVENIRE PRIMA E MEGLIO

Alla ASL TO 3 entra in funzione una Piattaforma digitale integrata con un’APP messa a disposizione degli operatori per riportare near miss, eventi sentinella ed eventi avversi. Uno strumento che aumenta sia la comprensione del rischio a livello gestionale sia la sensibilità degli operatori alla prevenzione

 

Check No Risk è la nuova Piattaforma digitale integrata con una APP per dispositivi mobili progettata e realizzata dalla ASL TO 3 (in collaborazione con la Società Dedalus) per la raccolta ed elaborazione dei dati relativi alle segnalazioni nell’ambito del sistema di gestione del rischio clinico. Da poco entrata in vigore, è stata presentata il 27 maggio scorso a “Les Journees de Chirurgie du Cheb”, organizzato dal Raggruppamento Ospedaliero del Territorio delle Alpi Meridionali (l’equivalente francese di una grande Azienda Sanitaria italiana) a Briancon.

Per Michele Presutti, Responsabile Qualità e Rischio Clinico dell’azienda sanitaria ASL TO 3, “il superamento dei supporti cartacei come strumento di trasferimento dei dati e delle informazioni, rappresenta un grande passo in avanti sia per la gestione sanitaria sia per il coinvolgimento degli operatori e la diffusione della cultura della sicurezza”.

Il primo vantaggio della Piattaforma e della sua APP integrata è di carattere eminentemente pratico: “Utilizzando moduli digitali abbiamo ridotto tempi di trasmissione e di latenza delle informazioni, le possibilità di errore e il rischio di compilazioni incomplete, dato che le schede non si ‘aggiornano’ se non sono stati compilati correttamente tutti i campi obbligatori”.

Molto più importante, però, è l’impatto sulla gestione sanitaria perché, “grazie alla Piattaforma, possiamo avere i dati in forma aggregata e organizzata in tempo reale e distribuiti su un ampio periodo di tempo, per tipologia di evento e per sede di accadimento. Nel prossimo futuro ci proponiamo anche di incrociare i dati su near miss, eventi sentinella e eventi avversi con i dati sul contesto nel quale questi eventi si sono verificati. Allora potremmo rispondere a domande come: Quanta affluenza è stata registrata in contemporanea ad una caduta? Qual era il carico di lavoro al momento di una dimenticanza?”.

Questa galassia di dati si rivelerà strumento fondamentale per chi è chiamato a scegliere le politiche di gestione sanitaria ai diversi livelli: sono i dati che offrono gli elementi reali sui quali basare le decisioni e – elemento non di poco rilievo – questi dati non sono più racchiusi in centinaia di schede cartacee, ma sono facilmente reperibili, e da molti attori qualificati, sui nostri server. Con il passare del tempo potremo avere un quadro sempre più chiaro dell’andamento del rischio nella nostra ASL e sviluppare e mettere in campo, di conseguenza, nuove e sempre più efficaci misure per contrastarlo”.

Michele Presutti, Responsabile Qualità e Rischio Clinico dell’azienda sanitaria ASL TO 3

“Già adesso stiamo procedendo ad una serie di audit reattivi sulla base dei primi eventi segnalati, a dimostrazione ulteriore che la raccolta dei dati, nella gestione del rischio, è l’origine di quasi tutte le azioni di miglioramento”.

Un principio che è sia scientifico che culturale: “Non bisogna mai smettere di sottolineare come i reparti che segnalano più incidenti non sono i più pericolosi, ma i più sicuri, perché sono quelli che pensano quotidianamente a come migliorare la sicurezza”.

In quest’opera di sensibilizzazione “la digitalizzazione ci aiuta ulteriormente, perché facilita il coinvolgimento di tutti gli operatori e, nel contempo, li introduce alle tematiche della gestione del rischio. Già la stesura delle schede rappresenta una sorta di introduzione formativa al Risk Management oltre che un vero e concreto contributo alla sicurezza di pazienti e professionisti sanitari”.

FOCUS SULLA PREVENZIONE DELLE INFEZIONI OSPEDALIERE

In Italia ogni anno si contano circa 530.000 casi di infezione correlate all’assistenza. Un fronte sul quale il Sistema Sanitario Italiano è impegnato da più di trent’anni. Durante l’appuntamento “Focus sulla prevenzione delle infezioni ospedaliere” – organizzato in Senato da Motore Sanità – si è fatto un punto a 360 gradi sulla questione

 

Il Focus, tenutosi a Roma nella giornata di giovedì 23 Maggio 2019, su iniziativa di Motore Sanità, ha messo in luce le problematiche legate alla mancata o inadeguata prevenzione delle cosiddette Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA). Grazie all’ampia rete di sorveglianza e ai dati forniti dall’European Centre for Disease Prevention (ECDC) sappiamo, infatti, che in Italia, nell’ultimo anno, i casi di infezioni contratte in ambienti ospedalieri (o luoghi di cura annessi) sono stati circa 530.000. Strutture residenziali di lungodegenza, ambulatori, centri di dialisi, day-surgery, domicilio, etc. “Un problema causato” – secondo il parere degli esperti – “dalla mancanza di scelte preventive appropriate”.

“La cultura di pratiche mirate a prevenire la diffusione delle infezioni esiste ed è ormai ampiamente diffusa – afferma, infatti, Angelo Del Favero, Direttore Area Relazioni Istituzionali Motore Sanità – “Ciò che realmente manca è la compliance, ovvero il rispetto delle regolamentazioni interne alle società sanitarie stesse”. La prevenzione nasce dall’individuazione di tali lacune, seguita da un intervento mirato ma soprattutto da attività informative finalizzate all’introduzione di buone pratiche. “Si tratta di semplici azioni che potrebbero prevenire più del 70% delle infezioni” sottolinea Alberto Firenze, Presidente Nazionale Associazione Hospital & Clinical Risk Managers di Roma.

Il primo esempio è proprio l’igiene delle mani, misura fondamentale per la prevenzione delle Infezioni Associate all’Assistenza (ICA). Ed è sulla pulizia delle mani che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) promuove ogni anno la “Giornata Mondiale dell’Igiene”.

Sono diverse le strategie di prevenzione delle ICA che prevedono l’adozione, nelle procedure sanitarie, di comportamenti professionali in grado di ridurre significativamente il rischio del paziente: il rispetto dell’asepsi (sterilizzazione degli strumenti chirurgici) nelle procedure invasive, la disinfezione e la sterilizzazione dei presidi sanitari e la normotermia (riscaldamento del paziente durante l’operazione chirurgica).

I problemi legati alle malattie infettive non sono solo di natura sanitaria ma anche socio-economica. “Le complicazioni dovute alle ICA” – continua Alberto Firenze – “oltre ad avere un grave impatto sociale (sofferenza, difficoltà psicologiche, assenza dal lavoro) e ad essere causa di morte in ambito ospedaliero (con circa 7.800 vittime l’anno), hanno un forte peso economico”. Secondo analisi effettuate dall’Associazione Hospital & Clinical Risk Managers di cui Alberto Firenze è Presidente Nazionale, le ICA ogni anno prevedono costi, per i pazienti come per le strutture, che si aggirano intorno ai 7 miliardi di euro su scala Europea. Ad incidere economicamente è il prolungamento della degenza, il consumo di farmaci e l’uso di procedure eccessivamente care.

INFEZIONI RESISTENTI: IL 30 PER CENTO DI QUELLE EUROPEE È IN ITALIA

I microrganismi resistenti sono praticamente endemici nel nostro Paese ma, lamenta un recente rapporto UE, manca il senso di urgenza che questa situazione dovrebbe generare. “Serve coordinazione ed omogeneità delle misure di prevenzione dal livello nazionale a quello locale – dice Annalisa Pantosti dell’Istituto Superiore di Sanità – e serve farlo in fretta perché la situazione sta peggiorando”

 

“Esistono due problemi nella sanità italiana che sono distinti ma fortemente interconnessi – spiega Annalisa Pantosti, Dirigente di Ricerca del Dipartimento Malattie Infettive Istituto Superiore di Sanità: il primo è quello dei microrganismi resistenti agli antibiotici; il secondo è quello delle Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA)”.

“La situazione dei microrganismi resistenti in Italia è molto grave: sono più numerosi e sempre più diffusi sia negli ospedali che nella rete delle strutture assistenziali sul territorio. Il 30 per cento delle infezioni resistenti in Europa è registrata in Italia, il che vuol dire che l’incidenza è drammaticamente maggiore nel nostro rispetto ad altri Paesi europei”.

Il secondo problema, quello delle ICA, sembra, a prima vista, meno grave: le infezioni negli ospedali, RSA e luoghi di cura sono, all’incirca, a livello della media europea e rimangono stazionarie. Questo, però, non è un risultato particolarmente incoraggiante per due motivi: il primo è il fatto che, nonostante gli sforzi, le infezioni contratte nei luoghi di cura non stiano diminuendo; il secondo è che, data la peculiare situazione italiana, una quota molto alta – circa un terzo – delle 530mila nuove ICA all’anno, è data da un microrganismo resistente”.

“Va da sé che ogni infezione resistente, ICA o meno, è più difficile da curare, più lunga e più costosa, ha maggiori probabilità di uccidere i malati e, anche in caso di guarigione, di aumentare il bacino e l’estensione delle resistenze, perché i pazienti anziani e fragili, che sono i più colpiti dalle infezioni resistenti, continuano a spostarsi da un setting assistenziale all’altro aumentando la diffusione delle resistenze”.

Perché la situazione italiana è tanto più grave di quella europea?

“In un recente rapporto [1] del Centro Europeo per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (ECDC) sono stati indicati due fattori di particolare rilievo. Il primo è quella che potremmo chiamare una sorta di ‘rassegnazione’: le resistenze sono così diffuse in Italia che non vengono più percepite come un’eccezione dai medici e dirigenti sanitari, ma un fatto quasi endemico. Non è così in altri Paesi europei. Ho parlato con medici che hanno ricevuto telefonate da ospedali francesi o belgi nelle quali venivano allertati sul fatto che un loro paziente era stato trovato positivo ad un batterio resistente. Questo significa che in Europa l’identificazione di una resistenza genera allarme. In Italia non è percepita come una priorità a qualsiasi livello politico o sanitario. Il secondo fattore nel rapporto ECDC è la regionalizzazione, ovvero lo squilibrio tra Regioni che hanno politiche di prevenzione e monitoraggio avanzate e Regioni che non ne hanno. Questo squilibrio, in parte anche per lo spostamento dei pazienti, riduce o vanifica l’efficacia degli sforzi virtuosi”.

Quindi, quali sono le misure che potrebbero fare la differenza?

Il primo passo è riconoscere che c’è un’emergenza. Il rapporto ECDC parla esplicitamente di «grave minaccia per la salute del Paese», di «iper-endemia» per alcuni batteri resistenti e del rischio concreto che, se il trend attuale non viene invertito, nel prossimo futuro la fattibilità di diversi e importanti interventi medico-chirurgici verrà messa in pericolo [2]”.

“Il secondo passo è riconoscere che, a prescindere dai protocolli, esistono delle debolezze strutturali nella Sanità italiana: gli edifici sono spesso vecchie strutture e il personale sanitario – medici ed infermieri – è scarso, soprattutto quello dedicato al controllo delle infezioni. Questi elementi pesano nella diffusione delle resistenze, pesano nei Pronto Soccorso promiscui e affollati, pesano nel corretto – o meno – utilizzo di antibiotici nelle RSA con pochi infermieri e pochissimi medici”.

“Il terzo passo è l’implementazione del Piano Nazionale di Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza avviato nel 2018. Abbiamo bisogno di avere un approccio omogeneo tra Regioni e tra i diversi livelli di assistenza nelle singole Regioni. Abbiamo bisogno di coordinare gli interventi e di far sì che tutti gli attori sanitari, dai dipendenti ospedalieri ai Medici di Medicina Generale, conoscano la situazione delle resistenze nei rispettivi territori e agiscano di conseguenza e consapevolmente, a partire dalla prescrizione degli antibiotici che hanno più probabilità di rivelarsi efficaci in un particolare contesto senza sprecare antibiotici che dovrebbero essere tenuti ‘di riserva’”.

È importante ribadire che la situazione delle resistenze è seria e che bisogna intervenire in maniera decisa e sistematica. Altrimenti anche le conseguenze saranno altrettanto gravi: sia sui costi che sull’efficacia delle cure, andando ad incidere in maniera sempre più dannosa sulla salute e sulla vita dei pazienti più fragili”.

 

 

 

[1] ECDC Mission Report: Country visit to Italy to discuss antimicrobial resistance issues 9-13 January 2017

[2] Ibidem. ‘Conclusion’ pag. 6 “If the current trends of carbapenem resistance and colistin resistance in gram-negative bacteria such as Klebsiella pneumoniae and A. baumannii are not reversed, key medical interventions will be compromised in the near future.

PAZIENTI FRAGILI E ANTIBIOTICO – RESISTENZE

I microrganismi resistenti sono, ormai, ovunque: reparti ospedalieri, RSA, lungodegenze. L’abuso medico, comunitario, veterinario e agricolo di antibiotici e antimicotici è alla base di questa emergenza planetaria. Ma non sono l’unica causa

 

Per capire come nasce, si sviluppa e si sta affrontando la piaga dei microrganismi Drug-Resistent, Sanità 360 intervista due professionisti che sono in prima linea dell’AULSS 9 SCALIGERA per contenere questa nuova minaccia alla salute delle persone: Diana Pascu, Responsabile U.O.S. Risk Management, e Mario Cruciani, Infettivologo del Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO) e responsabile del Programma di Stewardship Antimicrobica.

RESISTENZA AGLI ANTIMICROBICI: QUAL È LA SITUAZIONE?

Mario Cruciani – Stanno emergendo ceppi di microrganismi resistenti, multi-resistenti o pan-resistenti alle medicine e questa è una minaccia alla salute seria e globale perché significa che sono sempre più numerose le infezioni che facciamo fatica o non riusciamo a curare. Non è una novità. In natura esistono e sono sempre esistiti batteri o funghi resistenti alle molecole che compongono gli antibiotici o gli antimicotici (molecole, a loro volta, in gran parte naturali). L’insorgenza delle resistenze è imprevedibile: ci sono batteri che non sviluppano resistenze in 70 anni, altri che entrano in contatto con le medicine e le sviluppano in pochi mesi. Più massiccio è l’uso degli antibiotici o simili, però, più è probabile che una mutazione resistente prenda il sopravvento nella popolazione microbica al posto dei ceppi non resistenti che vengono eliminati. La novità del presente, perciò, è il numero, la velocità e la diffusione dei ceppi resistenti che stanno invadendo ospedali e, elemento allarmante, non solo questi.

DOVE SI TROVANO I MICRORGANISMI RESISTENTI?

Diana Pascu – Sono molto diffusi. Non sono, o non sono più, concentrati unicamente nei reparti di Terapia Intensiva o nei reparti specialistici, ma viaggiano assieme alle persone assistite in tutto il circuito sanitario. È il territorio il vero bacino delle resistenze, oggi: luoghi come le RSA e le Case di Riposo, nonché le lungodegenze. Abbiamo fatto diversi monitoraggi per capire esattamente le dinamiche di diffusione. In uno di questi abbiamo seguito il percorso di un paziente che in ospedale risultava positivo per un batterio resistente ad un antibiotico. Dopo essere stato trasferito in vari setting assistenziali, il batterio era diventato resistente a più antibiotici.

COME SI MOLTIPLICANO LE RESISTENZE?

Mario Cruciani – Sintetizzando al massimo, ci sono due processi all’opera. Il primo è il numero crescente di pazienti fragili, il secondo è l’abuso di antimicrobici in praticamente qualsiasi ambito medico, veterinario o agricolo. Per quanto riguarda i pazienti fragili, la loro relazione con le resistenze è molto stretta. I pazienti fragili – spesso anziani e con più di una patologia – sono quelli che richiedono trattamenti più complessi ed ospedalizzazioni più prolungate. Cannule, cateteri ed altre soluzioni di continuo della cute e mucose sono veicoli di ingresso ideali per i microrganismi che, una volta entrati in circolo, trovano in questi pazienti debilitati degli ospiti adatti a farli proliferare. Nei microrganismi, fortunatamente, la resistenza agli antimicrobici si associa, spesso, ad una riduzione della virulenza. Microrganismi resistenti agli antimicrobici ma poco virulenti hanno molte più possibilità di attecchire in pazienti debilitati. È per questo che la letteratura di infezioni da microrganismi resistenti in pazienti giovani e sani è scarsa. La tipologia del paziente è ancora determinante nel caso di contaminazione con microrganismi resistenti. Questa spiega anche perché i pazienti fragili – gli stessi che usualmente circolano tra ospedali e RSA – non siano solo quelli più spesso contaminati, ma siano anche le vittime che vengono colpite di gran lunga più spesso dalle infezioni resistenti.

È un circolo pericoloso: più aumentano i pazienti fragili (anziani, pazienti con patologie croniche, etc) più aumentano i microrganismi resistenti; più aumentano i microrganismi resistenti, più i pazienti fragili si ammalano e, eventualmente, muoiono.

Diana Pascu e Mario Cruciani – A questa relazione si affianca quella che è da considerarsi l’origine delle resistenze: l’impiego stesso di antibiotici e antimicotici. Quando questo uso diviene abuso, le resistenze aumentano in maniera estremamente veloce come sta avvenendo davanti ai nostri occhi. L’abuso avviene in sede medica quando, per esempio, gli antibiotici vengono prescritti per infezioni non batteriche o somministrati oltre il tempo necessario (ad es. la profilassi chirurgica che diventa terapia), ma anche in veterinaria, quando vengono usati come promotori di crescita degli animali. Se usiamo gli stessi principi, o principi molto simili a quelli delle medicine in agricoltura o negli allevamenti, creiamo resistenze ai farmaci. Se i batteri di un allevamento sviluppano resistenze, quegli stessi batteri possono contaminare il nostro cibo o influenzare la mutazione di altri batteri che, successivamente, infettano delle persone. Anche la percezione che la popolazione ha dell’antibioticoterapia è sbagliata. Molti insistono per farsi prescrivere gli antibiotici, perché li considerano una medicina non pericolosa ed efficace. Ed hanno ragione, almeno su base individuale. Ma se viene usata quando non serve, ciò crea un danno ambientale, perché quella medicina perde di efficacia, si spunta e bisogna trovarne un’altra in fretta. C’è bisogno di un forte investimento nella sicurezza che regoli e riduca l’impiego globale di sostanze preziose come gli antimicrobici. Un approccio che si definisce ONE HEALTH perché tutto è collegato: salute delle persone, degli animali e sicurezza degli alimenti.

QUALI SONO LE PROSPETTIVE PER IL FUTURO DELLA SANITÀ?

Mario Cruciani – Io ho dei dubbi sulla precisione delle previsioni sul lungo periodo. Prevedere quante persone moriranno nel 2050 per i super bug è difficile. Quello che è assolutamente certo, già ora, è che le resistenze aumentano ed aumentano anche le infezioni difficili da curare o non curabili, con aumento conseguente del costo dei ricoveri, nella lunghezza delle degenze, nel rischio per gli interventi chirurgici ed i ricoveri di pazienti fragili. Tutto questo aumenterà ulteriormente anche il costo della spesa sanitaria, nonché il costo dei risarcimenti per le infezioni legate all’assistenza, rendendo ancora più difficile la situazione dei bilanci sanitari. In più, ogni volta che troviamo un paziente con infezioni da germi resistenti, impieghiamo quei pochi farmaci ancora utili. Più aumenteranno le resistenze, perciò, più dovremo dar fondo alle nostre riserve, più velocemente le nostre armi si spunteranno.

Diana Pascu, Responsabile U.O.S. Risk Management, e Mario Cruciani, Infettivologo del Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO) e responsabile del Programma di Stewardship Antimicrobica

MA ESISTONO PROTOCOLLI DI DIFESA?

Diana Pascu – Sì ci sono. La prima linea di difesa è conoscere: capire il tipo di batterio o microrganismo che abbiamo di fronte. Subito dopo è necessario che la conoscenza circoli: ovvero che scatti l’allarme e in tempo brevi tutti gli interessati coordinino una risposta organizzata. A Verona seguiamo una lista di 12 microrganismi sentinella stilata dalla Regione Veneto. Appena uno di essi viene rilevato parte un Alert informatico che attiva il Risk Management e il CIO (Comitato infezioni ospedaliere). Da questo allarme scaturisce un’indagine mentre si attivano le procedure e i dispositivi fisici di sicurezza per affrontare e circoscrivere la contaminazione. Tutto questo avviene mentre una scheda dettagliata raggiunge il Dipartimento di Prevenzione e l’Azienda Zero.

MA LA RICERCA DI NUOVI ANTIBIOTICI?

Mario Cruciani – Questo è l’altro fronte. Per molti anni le ricerche o le scoperte sono state praticamente nulle. I costi enormi di sviluppo di una nuova molecola (600 milioni di dollari di media), le procedure lentissime di approvazione, il prezzo basso degli antibiotici sul mercato e il rischio – difficile da prevedere – che un nuovo antibiotico inducesse l’insorgenza di una nuova resistenza, di fatto annullando la sua efficacia, non hanno stimolato le aziende farmaceutiche in questa direzione. Bisogna, però, spezzare una lancia in loro difesa. Perché è vero che le aziende farmaceutiche agiscono per profitto, ma è altrettanto vero che è per questo che funzionano bene e sviluppano medicine che, presto o tardi, salvano la vita a moltissime persone. Io ricordo quando, all’inizio dell’epidemia dell’HIV, la mortalità nei pazienti con AIDS era altissima, e noi eravamo assolutamente inermi di fronte a questa emergenza. Poi sono arrivati i farmaci antiretrovirali e sembra passato un secolo. Ma ricordo anche che, all’epoca, Bill Clinton avviò una forte azione di incentivi e allentamento delle maglie burocratiche per lo sviluppo e l’immissione in commercio di terapie nuove e delle quali c’era disperato bisogno. Spero che, a livello mondiale, il sostegno allo sviluppo di nuovi antimicrobici si riveli altrettanto efficace nei prossimi anni senza dover aspettare che la situazione peggiori ulteriormente.

 

 

OCCHI PUNTATI SU ICA E RESISTENZE

In Italia si stimano circa 530 mila nuove Infezioni Correlate all’Assistenza nelle strutture ospedaliere e nelle residenze sanitarie. Un dato che non aumenta nel tempo ma neppure diminuisce significativamente nonostante tutti gli sforzi

 

Ad aggravare la situazione, però, è il fatto che molte di queste infezioni siano riconducibili a microrganismi resistenti. È un’emergenza planetaria, ma in Italia è particolarmente grave e diffusa al punto che il 30 per cento delle infezioni resistenti nell’Unione Europea si registra nel nostro Paese. Sono infezioni che hanno colonizzato in maniera massiccia il territorio, colpiscono i pazienti più fragili, aumentano il rischio per gli interventi di routine, aumentano il costo dei ricoveri e aumentano il costo dei risarcimenti.

Sono una vera minaccia per la salute delle persone e per la sostenibilità dei conti sanitari, a fronte della quale, forse, l’allarme non è abbastanza alto.

Sanità 360° offre il suo contributo per riportare al centro dell’attenzione il tema delle ICA, delle Resistenze e del loro effetto combinato. In questo numero pubblichiamo, perciò, l’esperienza dei professionisti sanitari che sono in prima linea sia a livello locale che nazionale per fronteggiare il crescente pericolo. La prima è raccontata attraverso l’intervista a Diana Pascu e Mario Cruciani, rispettivamente Risk Manager e Infettivologo della AULSS 9 Scaligera; la seconda è la NEWS 1 che raccoglie le parole (e l’allarme) della dottoressa Annalisa Pantosti dell’Istituto Superiore di Sanità.

Due contributi che vi invito a leggere e condividere tra i vostri colleghi per aumentare la consapevolezza su un’emergenza che cresce velocemente e minaccia senza termini la sicurezza delle cure.

 

Roberto Ravinale

Direttore Esecutivo Sham in Italia