AI CONFINI DEL RISK MANAGEMENT: DISABILITÀ INTELLETTIVA E MAPPA DEL RISCHIO INDIVIDUALE
Quando le persone assistite soffrono di una combinazione di patologie quali i deficit cognitivi con associazione di disturbi comportamentali e disabilità fisiche e/o sensoriali, chi si occupa di gestione del rischio non ha strade già pronte: deve tracciare la propria. Il Direttore Sanitario Maria Cardarelli racconta l’esperienza dell’Istituto San Giovanni di Dio, a Genzano di Roma, dove la prevenzione si calibra su ogni singolo ricoverato.
Presso l’Istituto San Giovanni di Dio, a Genzano di Roma, a nessun infermiere viene affidata la responsabilità di un turno di notte prima di aver fatto due interi mesi di affiancamento. La struttura, infatti, presenta diversi setting assistenziali per i suoi 230 posti letto ma, in particolar modo, si concentra su persone affette da disabilità intellettiva spesso associata ad una disabilità fisica e/o sensoriale. Uno spettro di condizioni patologiche per affrontare le quali è necessario imparare a compensare le diverse tipologie di rischio, mantenendo un equilibrio delicato sul piano farmacologico, nella scelta d’equipe all’approccio più adeguato e nel forgiare un’alleanza terapeutica con le famiglie degli assistiti. Per questo ogni singolo ricoverato necessita di una gestione ad hoc molto personalizzata in funzione dei suoi bisogni e del contesto di provenienza. Le circa 120 persone assistite nell’RSA sono, infatti, per il 100 per cento affette da ritardo mentale grave e medio-grave e, sempre per il 100 per cento, da disturbi del comportamento. “Non sono autosufficienti – spiega il Direttore Sanitario, la dottoressa Maria Cardarelli, sono tutte anziane, nella metà dei casi soffrono di disabilità fisiche che peggiorano con il tempo e, in un caso su 5, sono ammalate di epilessia”. Per quanto riguarda la complessità assistenziale, il quadro non è sostanzialmente diverso nei 20 posti letto della RSA dedicata ai soggetti affetti da demenze neurologiche (dall’Alzheimer alle demenze vascolari) né lo è nei 40 posti letto del Presidio di riabilitazione funzionale dedicato alle disabilità intellettive, dove, però, il rischio di reazioni violente è maggiore, perché l’età dei ricoverati è, in media, più giovane.
“Le cause della disabilità intellettiva e dei disturbi comportamentali sono molto eterogenee – spiega la dottoressa Cardarelli. Possono derivare, per esempio, da patologie congenite o ereditarie, traumi da parto, incidenti stradali, schizofrenie residuali croniche, sindromi genetiche (es. Sindrome di Prader-Willi), tossicodipendenze residuali. Quasi tutti i casi, però, sono accumunati da un deficit intellettivo da grave a lieve con associazione di diagnosi psichiatrica e la pressoché totale impossibilità di essere accuditi a casa”.
Mappare il rischio in questo scenario porta spesso a tracciare un territorio che non è interamente coperto dalla letteratura in materia di sicurezza. Non solo, molte delle sorgenti di rischio sono intrinseche alla condizione degli assistiti e le azioni volte alla prevenzione sono parzialmente efficaci. Inoltre, la contemporanea presenza di molteplici fattori di rischio determina la complessità di gestione. Ad esempio la riduzione di una tipologia di rischio può influire negativamente su altri fattori di rischio nello stesso paziente. Il rischio di aggressione, per esempio, in alcuni casi è elevato e il paziente è contemporaneamente a rischio di caduta. Una terapia farmacologica finalizzata a ridurre il primo può indurre un incremento del secondo e viceversa. Non è sempre possibile raggiungere una compensazione sufficiente, tuttavia devono essere prese delle decisioni tenendo conto del rapporto beneficio/rischio, accettando i rischi residuali che non possono essere eliminati e condividendo tale percorso con Amministratori di Sostegno e, ove possibile e spesso con difficoltà, con i familiari.
“La peculiarità delle persone ricoverate fa sì, perciò, che non tutte le Raccomandazioni Ministeriali siano applicabili nel nostro contesto. In molti casi abbiamo dovuto sviluppare un percorso costruito sulla nostra realtà”.
A fronte di queste difficoltà, però, l’Istituto guidato dal Padre Priore Fra Michele Montemurri, può contare su due punti di forza nell’affrontare i bisogni peculiari dei suoi pazienti. Il primo è la filosofia guida che accomuna tutte le realtà sanitarie dipendenti dall’Ordine Fatebenefratelli: l’umanizzazione delle cure. Il secondo è la particolare attenzione al Risk Management stimolata nella Provincia Romana dell’Ordine dal Direttore Sanitario Centrale Giovanni Roberti.
Il San Giovanni di Dio, perciò, ha iniziato a procedere su due piani. Il primo è stato quello di mappare tutti i rischi di ogni setting assistenziale. Nella RSA, per esempio, i rischi rilevati vanno dalla caduta all’aggressione etero o auto diretta, dalla fuga al rischio incendio, dal furto di farmaci al rischio ab ingestis. Ogni singolo rischio è stato catalogato per gravità degli esiti e probabilità dell’evento in una scala che va da ‘basso’ a ‘molto elevato’. Questa mappatura ha portato, prima, ad una serie di azioni e interventi – strutturali o di equipe – per ridurlo, poi, ad una valutazione del rischio residuale.
“Il passaggio successivo – spiega Cardarelli – è stato applicare la mappa del rischio ad ognuno dei lungodegenti, creando una scheda personalizzata che spaziasse dai contenuti relativi alla strategia di approccio individuale in funzione del quadro psicopatologico al tono di voce e alla comunicazione non verbale da utilizzare con ogni assistito, fino al contributo dei familiari e alle modalità per coinvolgerli al meglio. Il risultato è una tavola sinottica che abbraccia le caratteristiche di tutti i singoli pazienti e diverse schede che approfondiscono la condizione di ognuno. In aggiunta viene attuato un percorso formativo degli operatori che prevede la simulazione delle situazioni che si troveranno ad affrontare”.
“L’assoluta centralità del singolo individuo nell’approccio terapeutico e di prevenzione dipende dal fatto che i nostri assistiti non possono comprendere razionalmente il significato del loro ricovero o il motivo delle cure, ma possono percepire e agire emotivamente e cercare di ottenere quello che vogliono senza capire il rischio che ciò comporta. Tutto ciò rende molto complessa la relazione terapeutica e necessari una serie di accorgimenti che vanno tarati sulla persona. Ci sono, per esempio, ossessivi compulsivi per i quali la scelta dei vestiti diventa occasione per scivolare in una crisi a spirale: vogliono scegliere i vestiti ma, una volta posti davanti all’armadio, non riescono a decidersi e l’incertezza li porta alla disperazione. Ricoverati che fumano a catena non capiscono il rischio per la salute rappresentato dal fumo né il pericolo di un mozzicone acceso. Nei casi di controllo degli impulsi di tipo alimentare, i pazienti si sentono deprivati del cibo per le necessarie regole alimentari adottate dai curanti, perciò devono essere sempre supportati psicologicamente durante i pasti per prevenire e gestire le crisi di agitazione. Altri pazienti devono essere assistiti dallo psicologo in collaborazione con il personale di assistenza a causa di vissuti fortemente ansiogeni che li accompagnano anche nelle più semplici azioni di vita quotidiana quale la gestione di effetti personali (es. ciabatte e occhiali)”.
“La fragilità delle persone ricoverate per disabilità intellettiva non si ferma, del resto, alle loro patologia. È una fragilità che si riflette su tanti livelli dell’assistenza: nella cura e igiene personale, che molti degli assistiti non riescono a fare da soli; nella difficoltà di accedere ai servizi psichiatrici territoriali perché si tratta di pazienti psichiatrici la cui prima diagnosi, però, è di disabilità intellettiva; nella dipendenza da un familiare o tutore legale che può assumere una posizione ostile alla terapia perché rifiuta la malattia o ha un’aspettativa irrealistica circa le possibilità di riabilitazione; nel contesto socio-economico di provenienza che, molto spesso, è svantaggiato e riduce di molto la possibilità o la volontà della famiglia di venir coinvolta nell’assistenza stessa”.
“Da ciò emerge che il comportamento della famiglia è importante, anche se non sempre positivo, e influenza la mappatura del rischio. Ove siano presenti, e non è sempre così, i tutori legali sono spesso genitori molto anziani con, a loro volta, problemi di salute. Altre volte sono membri della famiglia che non accettano le terapie o minano l’autorevolezza del personale. Gli assistiti, anche se non le comprendono razionalmente, percepiscono le tensioni e possono reagire rifiutando la terapia o facendo finta di assumerla per poi buttare via le medicine. Non è frequente, ma è successo più volte, che medici, infermieri, psicologi e operatori dovessero accudire malati psichiatrici per i quali i tutori legali si opponevano alle terapie senza, però, poterli neppure dimettere, perché dimetterli sarebbe equivalso a interrompere la continuità assistenziale. Anche i tempi burocratici di risposta da parte dei Giudici tutelari sono lunghi e ciò rende ancora più difficoltoso il fronteggiare situazioni delicate”.
“Tutte le fragilità concorrono a spiegare la delicatezza di ogni passaggio assistenziale e la concatenazione che si instaura tra i rischi mappati. Per questo la preparazione del personale è essenziale e gli operatori ricevono una lunga formazione sul campo. Per poter assistere ogni singolo individuo, infatti, il lavoro di équipe deve essere attentamente calibrato e omogeneo. Gli operatori sanno che la trama degli equilibri tra farmaci, attività riabilitative, stimoli e reazioni cambia da persona a persona, così come cambia la mappa dei rischi e della loro probabilità. Gestire il rischio, nell’assistenza alla disabilità intellettiva, parte dall’accettare che i rischi sono parte della malattia: possono essere ridotti, ma mai cancellati; si possono compensare, ma non si può mai smettere di monitorarli finché le persone rimangono ricoverate. Il che equivale, in molti casi, a tutta la loro vita”.