LE CATENE DELLA SANITÀ: COSA OSTACOLA LA PREVENZIONE IN ITALIA

Luciana Bevilacqua è stata una delle prime ad introdurre la cultura e la formazione metodologica per valutare la qualità e la sicurezza delle cure nel nostro Paese. Neurologa, con una successiva specializzazione in Igiene, ha avviato il Servizio Qualità all’Ospedale Niguarda di Milano nel 1992  [1] . Le linee guida ministeriali che ha contribuito a stendere per una Gestione del Rischio incentrata sul sistema delle segnalazioni “no blame” e dell’incident reporting sono rimaste in piedi nei due lustri successivi alla pubblicazione. Sanità 360° ospita la sua analisi, nata da vent’anni di esperienza, sui gravi ritardi strutturali che impediscono alla prevenzione di svilupparsi al pieno delle sue potenzialità.

 

AVERE UN PIANO

Un’aspettativa di vita inferiore di circa tre anni, registrata a Caserta rispetto a Trento [2] , è una buona introduzione per affrontare il primo problema della prevenzione in Italia: l’assenza di una programmazione nazionale. Siamo un Paese che decide il dà farsi sulla base delle situazioni, lasciando spazio alla variabilità e all’arbitrio – del momento e del luogo – nelle scelte organizzative. Questo ha un costo enorme sul piano della prevenzione poiché essa non riguarda solo la salute del singolo paziente nel momento in cui entra in ospedale, ma la cura della popolazione nei successivi decenni. Abbiamo bisogno di una cornice di programmazione e di un’analisi epidemiologica, che si chieda non quale sia il problema adesso, ma quale sarà nel medio/lungo periodo. La diseguaglianza degli screening – che presenta drammatiche differenze di successo tra Nord e Sud – e la corsa ad affrontare la cronicità, sono due effetti diretti di vent’anni di ritardo. Già negli anni ‘80 sapevamo che un terzo della popolazione avrebbe sofferto di malattie croniche e ne avrebbe avuta più di una contemporaneamente. Pianificare allora avrebbe ridotto la pressione di oggi. Gran parte della prevenzione si risolve, infatti, in ciò che non accade: malattie, incidenti, necessità di ricovero. Abbiamo bisogno di una programmazione e abbiamo bisogno che sia nazionale e vincolante. Le azioni che portano le persone a non ammalarsi devono essere stabilite in anticipo, non finanziate a macchia di leopardo. E devono essere uguali per tutti.

LA BUONA GERARCHIA

Questo ci porta alla seconda condizione che rende possibile una prevenzione piena ed efficace: ristabilire la gerarchia dell’autorità. Ciò implica due distinte affermazioni di principio. La prima è: “La qualità delle cure è più importante dell’economia”. Ovvero: gli interventi, i farmaci, gli strumenti scelti non devono essere quelli che costano meno ma quelli che, bilanciando costo e prova scientifica, si rivelano migliori. La seconda affermazione è: “Le opinioni non sono tutte uguali”. Tutti hanno pari dignità, ma il parere di chi ha studiato decenni è più autorevole. Bisogna contrastare l’umiliazione del sapere che ha indebolito ogni ambito della società: dalla scuola alla salute. L’aumento dei casi di morbillo da 6 a 168 in uno solo anno in Toscana  [3] testimonia che l’ignoranza e le teorie deliranti non hanno diritto di essere considerate alla pari di quelle nate dallo studio, dalla fatica, dalla ricerca di intere vite, sia in Italia che all’estero.

 

 

GLI INGREDIENTI DELLA PASSIONE: COMPETENZE, FORMAZIONE, DIGNITÀ

Per sostenere l’autorevolezza, però, è necessario radicarla nelle competenze, costruite attraverso la formazione, che sono la chiave di volta, insieme a una retribuzione adeguata, del riconoscimento sociale delle professioni. Non è un caso, perciò, che il terzo grave limite della prevenzione riguardi la formazione. In Italia la formazione è ancora principalmente fondata su lezioni frontali nonostante sia dimostrato che l’unica formazione rivolta a professionisti sanitari veramente efficace in alcuni ambiti si basi sulla simulazione degli scenari di rischio, sulle crescite di competenze no skill  [4] , con allenamento a lavorare in equipe. È una carenza culturale che deve essere sanata già durante i corsi universitari e post universitari perché, mentre questi ultimi proliferano, diminuisce la capacità pratica di operare nei reparti e trattare i pazienti. L’origine è un abito mentale che privilegia la teoria alla pratica e che si riflette in un altro ritardo italiano: la certificazione delle competenze. Per esempio: tuttora (sulla carta) un laureato in infermieristica può essere impiegato, indifferentemente, in un laboratorio di ricerca, in ambito psichiatrico, o in un reparto di chirurgia. Ma non è così. La medicina è talmente complessa ed articolata da richiedere una formazione specialistica. In Inghilterra esistono certificazioni che vengono richieste a distanza di pochi anni per dimostrare che un infermiere non è solo un infermiere, ma è specializzato in assistenza cardiologica, chirurgica, oncologica, si è formato su quei campi, ha fatto esperienza nei reparti specialistici. Portare le competenze al centro della programmazione e della pratica sanitaria aiuta, inoltre, a riequilibrare il rapporto tra le varie professioni sanitarie. Il ritardo dell’Italia nell’appianare la differenza sociale tra medici ed infermieri è drammatico. Ed è antistorico. Tuttora gli infermieri, anche per carenza di risorse, non partecipano al giro mattutino, compilano una cartella assistenziale che è diversa da quella dei medici e non integrata. Come se i pazienti non fossero gli stessi e il processo di cura non fosse uno solo, rivolto a soddisfare i bisogni di salute del paziente. Di contro si è snaturato il valore della documentazione clinica che, in alcune regioni, ha assunto una valenza prevalentemente “amministrativa con ricadute economiche” e la lettura della cartella non sempre aiuta a comprendere il percorso del paziente, la sua evoluzione clinica, l’albero decisionale dei professionisti.

È da questi elementi – autorevolezza, competenze, formazione, giusto riconoscimento sociale e adeguata retribuzione – che si ricostruisce un dato fondamentale per la qualità delle cure: la passione degli esercenti la professione sanitaria e per il loro lavoro. Persone che hanno una missione, non solo dipendenti che timbrano il cartellino.

GOVERNO SANITARIO ED EMPOWERMENT DEL PAZIENTE

Quando iniziai a lavorare nei primi anni ’70, ogni aspetto della vita ospedaliera era incentrato sull’organizzazione ‘sovietica’ del lavoro a discapito della sensibilità dei pazienti: i prelievi si facevano immancabilmente all’alba, il pranzo veniva servito in tarda mattinata e i pazienti – che a casa loro assumevano regolarmente le medicine e si prendevano cura di sé – improvvisamente perdevano qualsiasi autonomia e venivano considerati totalmente privi della loro indipendenza. Dopo oltre 40 anni possiamo dire con ragionevole sicurezza che non è cambiato quasi assolutamente nulla: i ritmi ospedalieri appaiono come i moti delle stelle: certi e immutabili. Ma non è così e non è un tema secondario: l’organizzazione del lavoro in ospedale influenza pesantemente sia il rapporto con il paziente – il cui isolamento, se possibile, è cresciuto nel corso degli anni – sia la politica dei costi, che in molti casi potrebbe essere più efficiente se, ad esempio, la programmazione dei turni fosse meno rigida, e rispondesse ai flussi di lavoro e a una reale umanizzazione delle cure. Un esempio su tutti è quello delle sale operatorie nel settore pubblico: lavorano 4/5 ore al giorno (dalle 15 circa la maggior parte di esse è chiusa) e non sono attive il sabato e la domenica. Rimangono aperte solo per l’urgenza, come le sale diagnostiche. Perché? Vuol dire che potrebbero essere la metà, o che le liste di attesa potrebbero dimezzarsi? Altro esempio: la riabilitazione non è una terapia necessaria al paziente sempre, come un farmaco, ma viene somministrata secondo l’organizzazione del lavoro, per cui può non essere effettuata la domenica e i giorni festivi, a volte anche il sabato. Perché succede, se i pazienti continuano ad essere ricoverati durante il fine settimana allo stesso costo dei giorni feriali? Il settore privato ha dimostrato una flessibilità di gran lunga maggiore di quello pubblico nello sfruttare le risorse strutturali (sale operatorie, diagnostica aperta) e nell’indirizzare il personale laddove ve n’è necessità (turni). Lo spreco di risorse è doppiamente un tema di prevenzione: perché priva altre aree di una parte dei finanziamenti che potrebbe ricevere e diluisce i tempi dei ricoveri, con tutti i rischi aggiuntivi che questo comporta.

[1] Misurare l’immateriale. Riflessioni per una società trasparente (Franco Angeli Editore)

[2] Il Mattino, Mercoledì 25 Ottobre 2017

[3] Repubblica Firenze, 8 febbraio 2018 

[4] Quelle competenze non tecniche che sono considerate sempre più importanti in ambito sanitario: dal saper comunicare al lavorare in equipe.