ALLA SCOPERTA DEI PROGETTI DEL PREMIO SHAM (III PARTE)

In questa terza parte presentiamo due progetti: il primo riguarda la Direzione dell’Azienda Ospedaliera di Terni, mentre il secondo riguarda il Servizio di Day Hospital oncologico dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.

 

A – LA MAPPA DEL LABIRINTO: MONITORAGGIO INFEZIONI E ANTIBIOTICO RESISTENZA

La Direzione dell’Azienda Ospedaliera di Terni sta procedendo rapidamente al potenziamento del Sistema informativo sanitario per il miglioramento della qualità dei servizi erogati.

Intervista al dottor Michele Palumbo, responsabile del progetto presentato al premio Sham 2017: “Integrazione dinamica del sistema informativo sanitario dell’Azienda Ospedaliera di Terni per lo sviluppo del Programma di controllo delle infezioni correlate all’assistenza. Dall’“off-line” al “real time”: Alert profili di resistenza, Sorveglianza patogeni sentinella, Antimicrobial stewardship” (link).

“Le infezioni correlate all’assistenza (ICA), non più solo infezioni ospedaliere, colpiscono i pazienti mentre ricevono le cure e in tutto il mondo rappresentano l’evento avverso più frequente, che incide sulla sicurezza del paziente. Sono causate prevalentemente da microrganismi resistenti agli antibiotici comunemente usati, spesso con resistenze multiple. La capacità di determinare l’onere globale è legata alla capacità di raccogliere dati attendibili: si stima che ogni anno centinaia di milioni di pazienti siano interessati dal fenomeno, causa di mortalità significativa e danno economico per i sistemi sanitari. Nessun Paese ne è esente e, in generale, il danno è superiore nei Paesi a reddito medio basso rispetto a quelli ad alto reddito, oppure nei Paesi che presentano ritardi nell’attivazione dei Sistemi di sorveglianza. Nella realtà italiana fattori determinanti appaiono l’aumento della complessità delle cure e l’aumento della fragilità dei pazienti (cronicità e invecchiamento); d’altra parte, nel corso degli anni, è aumentata la nostra capacità di comprensione ed intervento”.

Per Michele Palumbo, Responsabile della SSD Dh Malattie Infettive e componente del Comitato infezioni ospedaliere dell’Azienda Ospedaliera di Terni, la Sorveglianza delle infezioni, definita dal WHO nel 1988 come “[…] il processo continuo di raccolta sistematica, analisi, interpretazione e valutazione dei dati sanitari, strettamente integrato con la diffusione tempestiva degli stessi a coloro ai quali serve […]”, è il prerequisito della prevenzione; l’analisi dei flussi informativi contenuti nei sistemi aziendali, permette di quantificare il problema nelle singole realtà, identificare e studiare le tendenze e le azioni di miglioramento necessarie e valutare gli interventi da effettuare. “È dalla capacità di produrre report e analisi tempestive che nasce la nostra comprensione dei trend di lungo periodo, ovvero dal fotografare la situazione in tempo reale e disporre della conoscenza necessaria a pianificare le azioni future”.

L’analisi dei flussi informativi oggi è una realtà”, spiega Palumbo. “Non è più necessario disegnare studi specifici per la raccolta dei dati, le informazioni necessarie sono già presenti nei sistemi informativi dei servizi sanitari: gli applicativi dei laboratori di microbiologia che registrano i risultati delle apparecchiature automatizzate, i dati clinici di ricovero e di attività ambulatoriale nelle cartelle cliniche informatizzate, le movimentazioni dei magazzini farmaceutici, le attività gestionali, ecc.”.

L’uso di strumenti informatici nel supportare il governo clinico nell’Area del Rischio Infettivo è il campo nel quale il dottor Palumbo opera dagli anni ’80 come specialista in malattie infettive. “Dopo le prime esperienze con i mainframe dei centri di calcolo, l’avvento dei personal computer e lo sviluppo di Internet hanno modificato radicalmente le potenzialità operative in questo campo. Paradossalmente realtà molto avanzate dal punto di vista informatico (i centri di calcolo dei grandi ospedali degli Stati Uniti), hanno avuto problemi rilevanti nel processo di modernizzazione, dovendo terminare di ammortizzare gli ingenti investimenti economici degli anni precedenti. Poter immediatamente incominciare a contaminare competenze sanitarie e informatiche è stato per il mio lavoro di estrema importanza; erano gli anni della comparsa dell’AIDS, seguiti dalle prime terapie antivirali ad alto costo, dall’ennesimo avvicendamento dei gram negativi ai gram positivi come maggiori responsabili di infezioni ospedaliere, dall’avvento di nuovi antifungini e antibiotici ad ampio spettro. Tanti anni di esperienza sono risultati fondamentali per cogliere l’opportunità attuale di sviluppare l’integrazione dei flussi informativi di base attivi da anni con i flussi di dati sanitari che oggi raggiungono un’ampia diffusione. Il problema dell’integrazione dei dati è molto rilevante in quanto sistemi sviluppati in periodi successivi possono essere modernizzati solo con investimenti significativi e tempi di analisi e di realizzazione adeguati.

La soluzione di iniziare da quello che è già disponibile, con risorse interne e senza costi aggiuntivi, permette una rapida operatività. “Ogni attività sanitaria nei confronti dei pazienti – spiega Palumbo – è in realtà collegata a tante altre: l’anamnesi, le analisi di diagnostica di laboratorio e strumentale, le prescrizioni terapeutiche e così via. Tutto viene fatto con lo scopo di assicurare al paziente un percorso di qualità. D’altra parte le stesse informazioni organizzate per lo scopo costituiscono la fonte dei dati necessari alle procedure di sorveglianza”.

Il progetto presentato al premio Sham 2017 è il frutto di questa esperienza medica e informatica.

“All’interno del network aziendale è stata realizzata, con strumenti open source, un’architettura di Data Warehouse Clinico, che storicizza i dati anonimizzati di diversi applicativi (Refertazione del Laboratorio di Analisi, Segnalazione rapida di resistenze antibiotiche, Cartella clinica informatizzata, Gestione sala operatoria, Sistema informativo ambulatoriale, Magazzino farmaceutico, Gestione File F – farmaci a distribuzione diretta, Anagrafe dipendenti, ecc.). Sono state create le tabelle di transcodifica tra i codici dei singoli applicativi e quelli di riferimento della rete di sorveglianza europea e il sistema di sorveglianza della regione Umbria. Sono state create una Centrale di autenticazione degli utenti che rilascia le autorizzazioni in base alle indicazioni della Direzione aziendale e una struttura CMS (Content Management System) che permette l’interrogazione del Data Warehouse da parte degli utenti.

L’analisi dei dati può essere ‘in real time’: l’accesso degli utenti è finalizzato ad ottenere una ‘fotografia’ istantanea della situazione riguardante l’evidenza clinica e/o laboratoristica di infezioni nei pazienti ricoverati, la presenza di antibiotico resistenza negli isolamenti, le consulenze infettivologiche effettuate. Gli utenti possono accedere ai dati dei reparti di competenza, la direzione di presidio e i consulenti di malattie infettive possono visionare tutto.

Oppure possono essere visualizzati report che descrivono i trend della sorveglianza rispetto all’uso del laboratorio microbiologico, l’andamento degli isolamenti, il consumo di antibiotici, la rilevazione di antibiotico resistenza in periodi temporali definiti (attualmente i dati in linea sono dal 2012 in poi)”.

“L’intero scenario nel quale ci muoviamo è formato da un numero enorme di informazioni singole. Integrarle, capire la loro relazione reciproca, renderle accessibili per rispondere alle domande nate dalle attività di prevenzione ci permette di vedere la situazione dall’alto: è la mappa del labirinto”.

“Il sistema richiede competenze statistiche, informatiche, mediche e ha delle complessità – non ultimo l’adattare i diversi linguaggi degli applicativi e aggiornare i metodi di archiviazione ai codici e agli standard internazionali – ma non è difficile da capire nei suoi due principi fondamentali. Il primo è la centralità dei dati ad ogni livello di intervento: comprendere, anche nella cultura e formazione sanitaria, che ogni singolo paziente e ogni singola cartella clinica rappresentano una tessera di un mosaico che collega la situazione del singolo reparto alla situazione internazionale.  Il secondo principio è che la conoscenza di questo quadro è fondamentale per le scelte di governo clinico: solo se conosciamo il passato e il presente possiamo capire e, addirittura, prevedere quali saranno i rischi clinici delle infezioni, come contrastarli e come prevenirle in futuro”.

B – TERAPIA FARMACI ANTINEOPLASTICI: COME MAPPARE UN PROCESSO DI MIGLIORAMENTO

Presso il Servizio di Day Hospital oncologico dell’ASST Santi Paolo e Carlo è in corso una valutazione “as is” prima di progettare un nuovo percorso attraverso la gap analysis e la tecnica “Safety Walk Around”.

Progetto Premio Sham 2017: “Mappatura del processo as-is e progettazione del nuovo percorso to-be attraverso la metodologia del Safety walk-around per la gestione del farmaco antiblastico nel Servizio di Day Hospital oncologico del polo San Paolo”. Referente: dr.ssa Chiara Oggioni, Risk Manager e Responsabile Qualità – ASST Santi Paolo e Carlo – Milano.

Al fine di implementare la raccomandazione ministeriale n.14 [1], sono state coinvolte tutte le aree cliniche interessate dal processo di terapia con farmaci antineoplastici, ovvero: l’Ufficio Qualità e Rischio Clinico, U.O.C. di Oncologia (servizio di D.H. oncologico), U.O.C. Farmacia (servizio di Prevenzione e Protezione), U.O.C. Ingegneria Clinica (servizio di Psicologia Clinica).

L’obiettivo prioritario è stato la minimizzazione del rischio di errore sul paziente cercando, altresì, di migliorare la qualità e l’efficienza dei servizi forniti, di ridurre il contenzioso ed aumentare la sicurezza degli operatori.

Per fare questo è stato necessario operare una valutazione “as is” complessiva del processo di terapia antineoplastica, propedeutica alla progettazione del percorso to-be. La valutazione “as is” [2] è stata realizzata attraverso una metodologia di analisi sia reattiva, ovvero la valutazione dello storico del sistema di Incident Reporting e degli eventi sentinella, sia proattiva, attraverso la somministrazione del questionario di “Monitoraggio – centralizzazione per la preparazione dei farmaci antiblastici”, allegato al DDGS Regione Lombardia n. 31139 dell’11.12.2001.

La progettazione del percorso to-be è stata effettuata attraverso la gap analysis col modello ideale e utilizzando la tecnica “Safety Walk Around” (SWA), tesa a far emergere le “latent failure, in collaborazione con il personale coinvolto nel processo”.

La metodologia utilizzata ha visto, perciò, diversi passaggi operativi.

Gli Audit clinici sono stati condotti sulle cartelle cliniche con DRG terapeutico oncologico (campione random di 150 cartelle chiuse nel 1° semestre 2015 e campione di convenienza di 30 cartelle attive di pazienti in trattamento, suddivise in differenti fasi del percorso terapeutico).

Le interviste strutturate agli stakeholder (pazienti e caregiver), sono state condotte su base volontaria e anonima a cura degli Psicologi clinici aziendali, con rilevazione dei trigger mediante l’utilizzo di scale self report (su modello della scala di valutazione Distress Management National Comprehensive Cancer Network).

I percorsi di Safety walk-around sono consistiti in sei incontri che hanno coinvolto tutti gli operatori del Servizio di Day Hospital oncologico, per un totale di 18 persone, alle quali è stato sottoposto un questionario per intervista strutturata costituita da 13 domande.

A tutto questo si è aggiunta l’analisi con RCA degli eventi avversi e degli eventi sentinella segnalati nel triennio 2013/2015 tramite il Sistema di Incident Reporting, che hanno coinvolto ogni fase della terapia con farmaci antineoplastici/n. terapie effettuate nel medesimo periodo.

Da questi passaggi si è arrivati alla pubblicazione di una nuova procedura aziendale condivisa, che descrive tutto il processo del paziente oncologico che afferisce al Servizio di DH oncologico per la somministrazione del farmaco chemioterapico e antiblastico (“Prevenzione degli errori nei pazienti in terapia con farmaci antineoplastici”).

Le successive analisi degli eventi avversi e degli eventi sentinella nell’anno 2016 rispetto alla media di segnalazioni annuali del triennio 2013-2015 sono state le seguenti: media eventi avversi in ambito oncologico nel triennio 2013-2015 = 3; media eventi avversi nell’anno 2016 = 0; eventi sentinella nel triennio 2013-2015 = 1; eventi sentinella nell’anno 2016 = 0.

 

 

[1] Ministero della Salute, RACCOMANDAZIONE PER LA PREVENZIONE DEGLI ERRORI IN TERAPIA CON FARMACI ANTINEOPLASTICI

[2] Letteralmente in inglese: “così com’è”. Si tratta di una valutazione che fotografa la situazione attuale prima di un cambiamento programmato.

I VINCITORI DEL PREMIO SHAM 2017: ASL BARI, GESTIONE DEL RISCHIO NELL’ASSISTENZA DOMICILIARE

Prove di futuro per l’assistenza domiciliare. Tre Unità Operative e 94 pazienti coinvolti in un studio sul rischio per i malati fragili e complessi, assistiti a domicilio. La risposta alla domanda “Che cosa potrebbe non funzionare?” è il primo passo per rendere più sistematico e sicuro il passaggio tra l’ospedale/struttura territoriale e la casa del malato.

 

Vincenzo Defilippis – RM – ASL BARI; Progetto: Gestione del Rischio Clinico nell’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) di II e III livello.

“Il contesto nel quale abbiamo operato è quello di una progressiva implementazione dell’assistenza domiciliare per pazienti fragili e complessi, un numero sempre maggiore dei quali riceve le cure direttamente a casa. In particolare, diventano sempre più numerose le persone affette da patologie neuromuscolari, respiratorie, cardiache che rendono necessari trattamenti avanzati quali la ventilazione meccanica invasiva (attraverso la tracheotomia) e la nutrizione artificiale per via enterale (attraverso una sonda PEG inserita da una gastrostomia)”.

“Nella ASL Bari è stata istituita, proprio per far fronte alle loro esigenze, un’Unità Operativa costituita da medici specialisti in anestesia ed infermieri altamente specializzati: l’UOSVD Fragilità e Complessità Assistenziale. I professionisti sanitari che ne fanno parte effettuano accessi periodici programmati a casa dei pazienti per il cambio della cannula tracheostomica e della sonda PEG. Contestualmente, qualora ritenuti necessari, effettuano controlli emogasanalitici su prelievi arteriosi e/o altri controlli e/o visite effettuabili a domicilio”.

“Questa è l’esperienza quotidiana dalla quale è nato il progetto Gestione del Rischio Clinico nell’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI) di II e III livello”.

“Per rispondere in maniera dettagliata alla domanda: ‘Quali sono i rischi potenziali per i pazienti?’ gli operatori hanno focalizzato il campo di analisi su un ambito circoscritto: i rischi correlati alla ventilazione meccanica e alla nutrizione artificiale effettuate a domicilio. L’indagine, perciò, ha riguardato gli aspetti del rischio clinico legati alle apparecchiature elettromedicali necessarie per le due attività e a tutti i materiali di consumo indispensabili per i corretti trattamenti di ventilazione e nutrizione”.

“Il gruppo di lavoro così nato ha coinvolto Medici ed Infermieri di tre Unità Operative: U.O.C. Rischio Clinico e Qualità; U.O.S.V.D. Fragilità e Complessità Assistenziale; U.O.C. Ingegneria Clinica – HTA”.

Vincenzo Defilippis, RM ASL BARI

“È stata disegnata un’analisi FMECA (Failure Mode, Effects, and Criticality Analysis – Analisi dei modi, degli effetti e della criticità dei guasti) e si è costruita una scala Priorità di Rischio (I.P.R.). Questa scala permette di dare un valore numerico al rischio calcolando tre variabili: Probabilità di Occorrenza; Gravità; Probabilità di Rilevabilità. Il risultato dell’analisi ha permesso di individuare le situazioni potenzialmente più pericolose, quali: problemi a carico del pallone AMBU (Auxiliary Manual Breathing Unit), delle cannule tracheostomiche, del ventilatore nei pazienti ventilati in maniera continua (h24) e del circuito di ventilazione”.

“Gli operatori si sono, quindi, focalizzati sul secondo livello di ricerca: la situazione reale di ognuno dei 94 pazienti coinvolti nello studio. Lo strumento sono state due check-list di controllo, una sanitaria (92 pazienti) e l’altra tecnica (94), entrambe da effettuarsi nella casa del malato”.

“La check-list sanitaria prevedeva il controllo della quantità dei presidi – come cannule di ricambio e sondini di aspirazione – presenti nelle abitazioni, nonché la ricognizione delle apparecchiature elettromedicali, nel loro stato di funzionamento e corretto collegamento alla rete elettrica”.

“La check-list tecnica a cura dell’UOC Ingegneria Clinica ed HTA, aveva l’obiettivo di valutare l’adeguatezza alla norma della rete elettrica o l’avvenuto collaudo tecnico del dispositivo elettromedicale fornito al paziente, ove previsto”.

“In prospettiva futura le due check-list – e soprattutto quella sanitaria – rappresentano un valido strumento per rendere più sistematico e sicuro il passaggio dall’ospedale all’assistenza domestica. Sia perché permettono una valutazione oggettiva preliminare al trasferimento, sia perché possono guidare una serie di controlli periodici che monitorano il perdurare delle condizioni di sicurezza”.

Com’è proseguita l’attività?

“La check-list è in fase di adozione formale dal Direttore Generale, ad integrazione delle Linee Guida sulle Dimissioni Protette già in uso dal 2014. Così essa sarà implementata nei vari setting assistenziali attraverso una programmazione di incontri formativi, focus – group, e di azioni di monitoraggio sulle modalità applicative”.

Com’è stato impiegato il premio Sham?

“Abbiamo da pochi giorni ricevuto il premio in danaro, che utilizzeremo per l’acquisto di un manichino multiuso per la formazione pratica infermieristica per l’assistenza domiciliare e per corsi monotematici sull’analisi e definizione dei bisogni dei pazienti in ADI”.

IL RISCHIO E L’ELEFANTE: TASSONOMIA RIVOLUZIONARIA AL RIZZOLI DI BOLOGNA

La Gestione del Rischio ha bisogno di un sistema di classificazione internazionale al quale tutti possano fare riferimento per confrontare le fonti e quantificare classi di rischio. L’OMS ne ha sviluppato uno e l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna lo ha applicato analizzando 900 casi in quasi 10 anni di lavoro. Il risultato è una visione globale che racchiude tutte le sfaccettature del rischio e riesce a dare un significato ad ognuna. È un metodo scientifico che permette di confrontare i risultati con altre strutture e che conferma l’incident reporting come il pilastro del Risk Management.

 

Intervista a Luca Bianciardi, Direttore Sanitario, e Patrizio Di Denia, Risk Manager, Istituto Ortopedico Rizzoli, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS).

“Nella gestione del rischio il problema non sono le fonti. Anzi: ne siamo addirittura circondati – annuncia Luca Bianciardi, Direttore Sanitario dell’Istituto IRCCS Istituto Ortopedico Rizzoli. Near-miss, incident reporting, richieste di risarcimento, segnalazioni all’URP, questionari, analisi interne ed eventi sentinella rappresentano una quantità impressionate di informazioni. La vera sfida è riuscire a leggerle insieme, per capire globalmente quale sia il quadro della situazione e dove si debba intervenire. Se non abbiamo la capacità di classificare in maniera precisa categoria, probabilità e gravità del rischio, se non utilizziamo un metodo che sia applicabile in contesti diversi permettendo di confrontarli, allora le fonti non saranno mai certe, ma interpretabili. Una visione globale non è possibile laddove ognuno può dare una lettura diversa del rischio a seconda del proprio punto di vista, delle proprie convinzioni o pregiudizi. Abbiamo bisogno di integrare le diverse fonti e di farlo scientificamente, ovvero, con un sistema di classificazione che permetta di ripetere la valutazione ottenendo lo stesso risultato”.

Patrizio Di Denia, Risk Manager del Rizzoli lo spiega con una parabola buddista: “Se diversi uomini privi della vista cercano di figurarsi un elefante attraverso il tatto, ognuno lo immaginerà a partire dalla porzione che ha raggiunto con le mani. Per chi tocca le gambe, l’elefante è come una colonna; per chi tocca le orecchie è come una vela; per chi tocca le zanne è una lancia, una corda per la coda, un muro per i fianchi. L’elefante non è nessuna di queste cose, ma tutte queste assieme. Così è il rischio”.

Questo filo di pensiero ha dato origine, nel 2008, ad un progetto che non si è mai interrotto: la mappatura dei rischi mediante l’integrazione delle fonti informative, impiegando la tassonomia ‘International Classification of Patient Safety’ (ICPS) sviluppata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

“Questo metodo” spiega Di Denia “permette di dare un valore alle fonti. In pratica qualsiasi near-miss o evento avverso viene classificato in funzione di due variabili: la gravità del danno e la probabilità dell’evento. Il prodotto di queste due variabili permette di definire cinque classi di rischio che identificano le priorità di intervento [1]”.

Finora sono state classificate con ICPS oltre 900 segnalazioni: il 4 per cento erano richieste di risarcimento, il 30 per cento reclami all’URP, il 61 per cento venivano dall’incident reporting. “Nessuna di queste fonti, da sola, può essere esaustiva – riprende Banciardi – ma, tutte insieme, rappresentano un quadro ragionevolmente completo”. La stessa conclusione è stata raggiunta sull’altra sponda dell’Atlantico, pochi anni fa, e pubblicata su The Joint Commission Journal on Quality and Patient Safety [2].

“Questo sistema – prosegue il Direttore – permette anche di capire quale sia l’oggetto delle diverse fonti informative e chiarire la loro importanza per la prevenzione. Stante che la maggior parte dei reclami all’URP riguarda la sensibilità emotiva nel rapporto con il personale, è indiscutibile che l’incident-reporting volontario si confermi come pilastro della Gestione del Rischio, una cultura che dobbiamo continuare a sostenere e incoraggiare poiché è lo strumento principe per prevedere e prevenire gli eventi avversi [3]”.

“Le classi di rischio, infatti, sono la base per individuare le priorità di intervento. Per un Istituto mono specialistico come il Rizzoli questi ultimi si concentrano necessariamente sulla chirurgia ortopedica. È sempre difficile quantificare l’effetto diretto delle politiche di Risk Management, perché buona parte dei risultati si racchiudono in ciò che non succede: un evento avverso, un’infezione post operatoria, etc. Quello che possiamo dire, però, è che alcune categorie di eventi avversi si sono notevolmente ridotte. E questo è classificabile come un risultato veramente incoraggiante”.

 

 

[1] Evidence, Integrare le informazioni sugli eventi avversi secondo la classificazione ICPS dell’OMS: uno studio pilota. Maggio 2014. Autori Patrizio Di Denia, Maurizia Rolli, Elisa Porcu, Stefano Liverani.

[2] Integrating Incident Data from Five Reporting Systems to Assess Patient Safety: Making Sense of the Elephant.

[3] L’IRCCS Istituto Ortopedico Rizzoli, su 16 mila interventi annuali riceve circa 90 richieste di risarcimento all’anno e produce 250-300 incident-reporting.

BREVE RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE

Il presente contenuto è a cura dell’Avv. Ernesto Macrì, che dal 2007 ha focalizzato il suo impegno professionale nel campo del diritto assicurativo, della responsabilità sanitaria e del risarcimento del danno. Consulente legale della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, del Sindacato degli Ortopedici e Traumatologi Italiani e del Ordine dei Medici di Roma, Macrì si è parimenti dedicato all’attività forense, alla formazione permanente e alla divulgazione come autore di libri e di articoli su riviste scientifiche e quotidiani nazionali, divenendo, nel tempo, una voce autorevole nel campo della responsabilità e dell’assicurazione in sanità.

Ernesto Macrì

Avvocato del libero foro di Roma

avv.emacri@gmail.com

Si riportano di seguito due recenti pronunce giurisprudenziali che, oltre ad intervenire su alcuni aspetti di stringente attualità, forniscono anche delle interessanti chiavi di lettura, in una visione prospettica, di alcuni peculiari profili della responsabilità sanitaria, per come ridisegnata alla luce della nuova normativa.

 

1. Corte Costituzionale – Sentenza 21 febbraio 2018, n. 34

Il giudice delle leggi è stato chiamato ad esprimersi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 del codice di procedura penale, « nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di citare in giudizio il proprio assicuratore, quando questo sia responsabile civile ex lege per danni derivanti da attività professionale ».

In estrema sintesi i fatti.

Il G.U.P. del tribunale ordinario di Bolzano era stato investito del processo penale nei confronti di alcune persone, accusate di aver posto in essere, in concorso tra loro, mediante la costituzione di un trust cosiddetto liquidatorio, una complessa operazione di sottrazione di beni di una società, poi fallita, ai creditori di quest’ultima. Tra gli imputati figurava anche il notaio rogante.

Nel corso dell’udienza preliminare, dopo la costituzione di parte civile del fallimento, il pubblico ministero ha contestato in via suppletiva a tutti gli imputati anche il reato, «di natura colposa», di cui agli artt. 217, primo comma, numeri 3) e 4), e 219, secondo comma, numero 1), del r.d. n. 267 del 1942 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa).

A questo punto, il notaio aveva chiesto di essere autorizzato a chiamare in giudizio, quale responsabile civile, la propria compagnia di assicurazione, eccependo, altresì, l’illegittimità costituzionale dell’art. 83 cod. proc. pen., dal momento che, trattandosi di una assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale obbligatoria per legge, ai sensi dell’art. 3, comma 5, lettera e) del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito, con modificazioni, in legge 14 settembre 2011, n. 148), non consente a colui che è imputato la predetta chiamata in giudizio, «(…) allo stesso modo di quanto avviene – in forza della sentenza n. 112 del 1998 della Corte costituzionale – per l’imputato chiamato a rispondere del danno provocato dalla circolazione di veicoli soggetti ad assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile a norma della legge 24 dicembre 1969, n. 990 ».

Le questioni controverse

Secondo il giudice remittente si tratterebbe di questione di peculiare rilevanza, in quanto la richiesta di citazione dell’assicuratore non potrebbe essere accolta, dal momento che l’art. 83 cod. proc. pen. non menziona l’imputato tra i soggetti legittimati a chiamare in giudizio il responsabile civile.

Inoltre, sempre secondo il giudice remittente, sotto il profilo della non manifesta infondatezza della questione sollevata, le motivazioni contenute nella sentenza n. 112 del 1998 della Corte costituzionale devono trovare applicazione anche nella fattispecie in esame.

Infatti, « la conclusione che ” ove la fonte di responsabilità del responsabile civile non sia atto negoziale ma la legge – tale da integrare la previsione di cui all’art. 185 c.p. –“, il mancato riconoscimento all’imputato della facoltà in discorso determini la lesione quantomeno degli artt. 3 e 24 Cost. e dei sottesi principi di eguaglianza e del diritto di difesa, in relazione alle diverse facoltà offerte al danneggiante convenuto in un processo civile ».

Sin qui le ragioni poste a fondamento della questione sollevata dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Bolzano.

Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. Tra le ragioni poste da quest’ultima a sostegno della dichiarazione di infondatezza delle questioni sollevate, merita di essere menzionata quella in base alla quale «(…) dalla disciplina dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile professionale non sarebbe desumibile l’esistenza di un rapporto interno di “garanzia” tra l’imputato danneggiante e l’istituto assicuratore assimilabile a quello valorizzato dalla sentenza n. 112 del 1998 ».

La decisione

La Corte Costituzionale ritiene le questioni poste dal giudice a quo non fondate.

In primo luogo, secondo il giudice delle leggi non può essere condiviso l’assunto del giudice remittente, in base al quale la facoltà di chiamata in giudizio dell’assicuratore dovrebbe essere riconosciuta all’imputato nella generalità dei casi di assicurazione obbligatoria per legge: dunque, anche in quello – che viene in rilievo nel giudizio a quo – dell’assicurazione per la responsabilità civile derivante dall’esercizio dell’attività notarile.

In secondo luogo, ritiene la Corte che «(…) le enunciazioni di principio racchiuse nella sentenza n. 112 del 1998 si presentano intimamente saldate alle ”specifiche caratteristiche che rendono del tutto peculiare la posizione dell’assicuratore chiamato a rispondere, ai sensi della legge n. 990 del 1969, dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti” (…)».

In terzo luogo, considerata la “ funzione plurima ” del rapporto di garanzia contemplato dalla legge n. 990 del 1969 – giacché destinato a salvaguardare direttamente sia la vittima, sia il danneggiante – e le peculiarità della normativa in questione, la Corte Costituzionale ha ritenuto di escludere che «(…) la ratio decidendi della sentenza n. 112 del 1998 fosse estensibile (…) alla generalità delle ipotesi di responsabilità civile ex lege per fatto altrui ».

Infine, la Corte Costituzionale rileva – e veniamo in tal modo al passaggio della pronuncia che interessa mettere in risalto – che, pur essendo l’assicurazione per la responsabilità civile del notaio obbligatoria (al pari di quanto è previsto per il personale sanitario) – dunque di assicurazione che, per un verso garantisce l’assicurato, per altro verso è destinata a tutelare anche l’interesse del terzo danneggiato – nondimeno, il legislatore non si è spinto sino a prevedere la possibilità di un’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore (l’enfasi è nostra), analoga a quella che contraddistingue la responsabilità civile automobilistica: quest’ultimo profilo, chiosa la Corte, è «(…) elemento che resta, (…), dirimente al fine, per un verso, di escludere che la posizione dell’assicuratore possa essere inquadrata nel paradigma del responsabile civile ex lege, quale delineato dall’art. 185, secondo comma, cod. pen., e, per altro verso, di attribuire correlativamente anche alla pronuncia additiva oggi richiesta la valenza di innovazione sistematica, riservata alla discrezionalità del legislatore» (l’enfasi è nostra).

A questo punto, e concludendo, mutatis mutandis , applicato il percorso argomentativo sopra illustrato al personale sanitario, l’interrogativo da porsi è il seguente:

– poiché anche per il professionista sanitario, come per il notaio, è previsto l’obbligo di assicurazione di responsabilità civile nei confronti dei terzi;

– considerato, tuttavia, che a dispetto di quanto stabilito per l’assicurazione per la responsabilità civile del notaio, nelle ipotesi relative al personale sanitario, la recente legge Gelli-Bianco ha previsto (una volta portato a regime il quadro normativo con l’approvazione dei decreti attuativi) l’azione diretta del terzo danneggiato nei confronti dell’assicuratore (art. 12);

– se la questione di legittimità costituzionale in merito all’art. 83 c.p.p., in futuro, dovesse essere sollevata a seguito di un giudizio che veda coinvolto un esercente la professione sanitaria in regime libero professionale (ricordiamo che l’art. 12 della l. 24/2017, prevede la sola possibilità per il terzo danneggiato di agire direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione che presta la copertura assicurativa per tale categoria di professionisti), l’esito del giudizio davanti alla Corte Costituzionale potrebbe essere diverso rispetto a quello che è stato nel caso citato?

– in altri e più diretti termini, il giudice delle leggi, nelle ipotesi in cui fosse coinvolto un esercente la professione sanitaria in regime libero professionale, potrebbe dichiarare illegittimo l’art. 83 c.p.p. «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di citare in giudizio il proprio assicuratore, quando questo sia responsabile civile ex lege per danni derivanti da attività professionale»?

 

 

2. Corte Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sent. 26 febbraio 2018, n. 35.

Le questioni controverse

La Corte dei Conti, in specie la sezione giurisdizionale lombarda, ribadisce il proprio orientamento nel senso della irretroattività della L. 24/2017.

Il giudizio contabile, a cui si riferisce la sentenza n. 35/2018 , concerneva una fattispecie di danno erariale indiretto conseguente al risarcimento dei danni liquidati ad un paziente per le gravi lesioni permanenti patite in seguito ad un intervento neurochirurgico.

Sul piano difensivo, uno dei due medici coinvolti nella vicenda, aveva eccepito preliminarmente «l’inammissibilità dell’azione di responsabilità amministrativa per mancata comunicazione al convenuto da parte dell’Azienda Ospedaliera Omissis di Omissis dell’instaurazione del giudizio civile secondo quanto stabilisce l’art. 13 della Legge Gelli », precisando a tal proposito che «tale legge è entrata in vigore il 1 aprile 2017 quindi prima della notifica al convenuto dell’atto di citazione perfezionatasi l’8 settembre 2017, con cui la Procura ha introdotto questo giudizio. Del tutto ininfluente risulta la circostanza che in data 27 marzo 2017 sia stato notificato al convenuto sempre da parte della Procura l’invito a fornire deduzioni in quanto quest’ultimo è un atto relativo alla fase pre-processuale».

Il professionista sanitario, inoltre, aveva contestato la non opponibilità della C.T.U. resa in sede civile atteso che «il dott. Omissis non è stato parte processuale» in nessuno dei procedimenti giudiziari, «e non ha potuto quindi in alcun modo esercitare il proprio diritto di difesa», ponendo altresì in evidenza che «una diversa soluzione comporterebbe una gravissima violazione dei principi costituzionali di cui all’art. 24 (diritto di difesa) e 111 (diritto del contraddittorio) della Costituzione, nonché dell’art. 6 della C.E.D.U (ragionevole durata del processo)» .

Di conseguenza, secondo il medico convenuto, “la parte attrice neppure potrà pretendere di desumere argomenti di prova dalla suddetta Consulenza tecnica d’Ufficio, così come da altre prove del giudizio civile, avendo la nuova legge Gelli precluso chiaramente questa possibilità laddove i medici non sono stati parti del processo (…)».

La difesa dell’altro professionista sanitario, richiamando sempre il dettato normativo della legge Gelli-Bianco, aveva sottolineato come, in ogni caso, «(…) a mente dell’art. 9, comma 5, legge 24/2017, in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria, la condanna per la responsabilità amministrativa dell’esercente la professione sanitaria “non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo».

La decisione

La Corte dei Conti, innanzitutto, scrutina la questione relativa all’applicabilità al caso di specie dell’art. 13 della legge Gelli-Bianco, ritenendo «(…) non (…) accoglibile la specifica istanza rivolta dalla difesa dello Omissis con riguardo all’applicazione retroattiva» della norma in questione.

Sul piano argomentativo, secondo i giudici contabili, la non applicabilità con effetti retroattivi della disposizione normativa, deriva «(…) da ragioni formali, in assenza di una espressa previsione di efficacia retroattiva della norma, e da ragioni sostanziali, in quanto ne deriverebbe una ingiustificata sterilizzazione di tutte le azioni risarcitorie in cui le Aziende Ospedaliere non abbiano seguito, in assoluta buona fede, una procedura all’epoca non prevista e non richiesta né da previsioni di legge né tantomeno regolamentari».

Secondo il Collegio, «(…) Le medesime considerazioni valgono, naturalmente, anche per quanto riguarda l’invocata applicabilità al caso di specie dell’art. 9, comma 5, sempre della legge n. 24/2017, avanzata dalla difesa del Omissis, considerato anche che, in mancanza (…) di una espressa previsione di efficacia retroattiva della norma, verrebbe ingiustificatamente compressa a priori l’aspettativa risarcitoria dell’Azienda Ospedaliera riferita all’epoca del subìto nocumento e delle azioni conseguentemente intraprese».

Il secondo profilo, su cui è d’uopo soffermarsi, attiene ai rapporti tra il giudizio civile e il giudizio contabile.

La Corte dei Conti, collocandosi nel solco di una giurisprudenza sotto quest’aspetto ormai granitica, ribadisce l’assoluta autonomia del giudizio di responsabilità amministrativo-contabile rispetto al contenzioso in sede civile.

Sicché, nel caso di specie, i giudici contabili hanno ritenuto che dovesse essere vagliata la fondatezza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa: cioè, danno erariale, rapporto di servizio, nesso di causalità tra la condotta tenuta e il danno subìto dall’ente, colpa grave.

Pertanto, sul piano squisitamente probatorio, la Corte ha evidenziato come «(…) la C.T.U. acquisita in sede civile, su cui si basa sostanzialmente l’atto di citazione per affermare la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa grave in capo ai convenuti (…), non può assurgere, nel caso di specie, a prova “principe”, ovvero a strumento decisivamente asseverativo della responsabilità dei convenuti, non avendo avuto alcun modo questi ultimi di prendervi parte, e dovendosi, proprio a garanzia del diritto di difesa degli stessi(…), valorizzare tutti i contributi tecnico-scientifici acquisiti in atti».

In conclusione, attesa la reciproca indipendenza dei due giudizi, la Corte può, dunque, valutare autonomamente i fatti che sono stati oggetto del giudizio civile potendo altresì avvalersi degli accertamenti compiuti in quella sede: principio, quest’ultimo, recepito in maniera espressa dalla legge di riforma (art. 9, comma 7) che ha previsto la possibilità di trarre argomenti di prova desunti dalle prove acquisite nel giudizio civile, purché il professionista sanitario ne abbia preso parte, nel giudizio di responsabilità amministrativa.

CLINICAL GOVERNANCE: COS’È E COME PUÒ CAMBIARE LA SANITÀ IN MEGLIO

Un approccio di gestione manageriale che appartiene in modo esclusivo al mondo sanitario si fonda sulle evidenze scientifiche e parte esplicitamente dai “problemi clinici” vissuti da medici e infermieri nella pratica quotidiana per arrivare ad una nuova organizzazione generale e sistematica. È questo il punto di incontro tra i professionisti clinici e i manager della Sanità e può far risparmiare fino al 20% delle risorse, per riallocarle dove servono maggiormente ovvero in prestazioni ad elevato impatto per la salute dei pazienti (Value). I principali strumenti di Clinical Governance sono: l’Evidence Based Practice, i Percorsi Assistenziali, i Clinical Audit, il Clinical Risk Management e l’Health Technology Assessment.

 

Sanità 360° ne parla con il dottor Claudio Beltramello, medico specialista in Igiene e Medicina preventiva, esperto in gestione ed economia sanitaria, nonché consulente e formatore di lungo corso per l’università di Padova, il GIMBE di Bologna e diversi ospedali e ASL italiani.

In tempi moderni possiamo considerare come momento di svolta per la Sanità il 1991, anno di nascita dell’Evidence Based Medicine. Per uno dei suoi padri fondatori, David Sackett, si trattava di un approccio risalente già al 19° secolo che poteva fare la differenza agli albori del 21°. Il principio era: “Integrare le competenze cliniche individuali con il meglio dell’evidenza scientifica [1]”.

In pratica ciò si traduce nell’applicare, nelle scelte cliniche quotidiane di fronte ai singoli pazienti, gli strumenti preventivi, diagnostici, terapeutici e riabilitativi che sono stati riconosciuti, a livello scientifico internazionale, come i più efficaci e sicuri per quella specifica condizione clinica. Quegli stessi studi, raffinati nell’analisi sistematica di migliaia di casi con ulteriori elaborazioni statistiche, diventano le fondamenta delle linee guida e delle raccomandazioni cliniche in esse contenute.

Ad oggi Davis Sackett è ricordato come “il gigante tra i giganti”, l’Evidence Based Medicine è il gold standard della sanità e Sackett stesso, come scrisse poco prima di morire di tumore in tarda età, capì: (ho) “guadagnato l’immortalità grazie ai continui successi dei giovani ai quali ho fatto da mentore [2]”.

“Questo – spiega il dottor Claudio Beltramello – è l’orizzonte in cui si inserisce la Clinical Governance”.

 

 

Come è possibile aumentare la qualità delle cure e dei servizi sanitari sulla base dell’evidenza scientifica?

La Clinical Governance rappresenta un possibile strumento in tal senso e si attua partendo da un forte mandato strategico aziendale, avvalorato dallo staff dei Servizi Qualità delle ASL/ospedali. La peculiarità di questa disciplina di management è quella di essere in grado di coinvolgere i clinici partendo dai loro problemi quotidiani, legati alla gestione dei pazienti. Non è una formula manageriale astratta, estranea alla vita dei reparti/servizi, ma anzi parte dal presupposto che il primo obiettivo di medici, infermieri e degli altri professionisti sanitari sia quello di “occuparsi dei pazienti”, pertanto è comprensibile che gli ambiti organizzativi e gestionali vengano percepiti emotivamente come “lontani”. Dobbiamo pertanto trovare un punto di contatto tra la loro esperienza in prima linea e gli strumenti manageriali: la Clinical Governance può rappresentare questo “anello di congiunzione”. Per sviluppare ad esempio un percorso assistenziale si parte da una patologia o una condizione clinica che è rilevante in termini di frequenza e/o mortalità e che quindi i clinici sentono come un problema che li riguardi. Oppure per applicare lo strumento del clinical audit si parte dalla variabilità clinica dei loro comportamenti, laddove invece le evidenze scientifiche sono molto forti nel dire di fare (o non fare) qualcosa. Un minimo di variabilità tra i professionisti è necessaria per adeguarsi alle caratteristiche del singolo paziente, ma ciò non è mai giustificabile su un piano scientifico. Le richieste di esami e consulenze in Pronto Soccorso o la gestione del rischio tromboembolico dei pazienti in chirurgia, così come la decisione di effettuare o meno un intervento chirurgico su un determinato paziente rappresentano degli esempi concreti. Oltre a lavorare sull’appropriatezza tecnica, la Clinical Governance ci può aiutare anche a migliorare quella organizzativa (intensità di cura, setting meno complessi, terapie intensive aperte), che impatta non solo nella dimensione dell’efficienza ma anche e soprattutto in quella dell’efficacia. Se ci addentriamo nell’ambito della Gestione del rischio clinico gli esempi pratici collegati al quotidiano sono innumerevoli: si parte dall’analizzare un errore, un incidente realmente accaduto in quel reparto/servizio per operare ragionamenti sull’organizzazione dei processi in funzione della sicurezza e sulla gestione della comunicazione (quest’ultimo ambito si rivela sempre cruciale se si cerca di ridurre la probabilità di commettere errori).

Gli strumenti di Clinical Governance che collegamento possono garantire tra appropriatezza, recupero di risorse e riduzione di danni evitabili ai pazienti?

Vi sono solide evidenze che nei Paesi occidentali almeno il 20% degli esami (indagini radiologiche, terapie farmacologiche, interventi chirurgici, consulenze, ecc.) non andrebbero eseguiti. Ovvero se si applicassero in modo rigoroso le evidenze scientifiche si ridurrebbe almeno del 20% (complessivamente) quello che viene fatto in Sanità. In altre parole la medicina moderna tende a “fare troppo” e non solo per ragioni di medicina difensiva. Tuttavia gli stessi studi mettono in evidenza che al contrario molti interventi utili, capaci di generare salute, non vengono attuati per niente o solo in minima parte. Facendo un esempio nel campo dell’ostetricia possiamo affermare che facciamo troppi (inutili) parti cesarei, troppe (inutili) episiotomie e al contrario non siamo in grado di promuovere l’allattamento esclusivo al seno dei nuovi nati fino al sesto mese (intervento per il quale vi sono enormi evidenze di beneficio per il bambino e anche per la madre). Da un lato spendiamo diverse migliaia di euro per trattamenti antitumorali costosissimi, in casi in cui il beneficio per il paziente è nullo, poiché in stadio troppo avanzato, e dall’altro lato facciamo pochissimo per ridurre l’abitudine al fumo nella popolazione e nei giovani in particolare (il fumo di sigaretta è di gran lunga la prima causa evitabile di tumore nella nostra società). È necessario smettere di fare cose inutili (e quindi intrinsecamente dannose per il paziente perché ogni farmaco, indagine o intervento chirurgico porta con se degli effetti collaterali inevitabili) per reinvestire le risorse risparmiate per effettuare interventi di provata efficacia che ora non operiamo o troppo tardi a causa delle liste d’attesa. Questa appare come l’unica strada percorribile in uno scenario dove le risorse sono limitate ma i bisogni sanitari della popolazione aumentano esponenzialmente a causa dell’invecchiamento medio e delle nuove scoperte scientifiche che coprono ambiti sempre più ampi. Un altro esempio che riguarda l’appropriatezza organizzativa è quello degli interventi chirurgici in regime di Day Surgery. Alcuni Paesi del nord Europa sono arrivati a gestire in tale regime il 70% del totale degli interventi chirurgici in elezione (programmati, quindi escludendo urgenze ed emergenze) dimostrando un livello di sicurezza ed efficacia uguale o in alcuni casi anche superiore al regime di degenza (per quegli stessi interventi). In Italia siamo intorno al 20% e ciò significa che stiamo perdendo un’occasione per liberare risorse (tempo del personale, tecnologia, posti letto, spazi di sale operatorie) per poterle reinvestire nell’eseguire gli interventi più complessi, che ovviamente non possono essere gestiti in Day Surgery e le cui liste d’attesa sono in genere molto lunghe. Questi sono esempi di disinvestimento e riallocazione dove non sono previsti tagli lineari, ma al contrario è attuata una riconversione dell’utilizzo delle risorse seguendo esclusivamente il faro delle migliori evidenze scientifiche. In tal modo si genera maggiore efficacia e sicurezza e quest’ultima, oltre ad aspetti etici, ha enormi risvolti economici.

In che modo una misura gestionale influisce sulla vita di un reparto?

Come anticipato, le risorse a disposizione della Sanità pubblica aumentano poco ma al contrario aumentano i costi delle tecnologie e i bisogni della popolazione che invecchia ed ha numerose patologie croniche. Questo è un problema del quale i professionisti sanitari hanno esperienza diretta e quotidiana. Quegli stessi professionisti capiscono e condividono il linguaggio e il metodo scientifico che è alla base delle scelte organizzative proposte dagli strumenti di Clinical Governance e quando essi sono applicati in modo condiviso e associati ad una formazione specifica e agli obiettivi di budget, le cose iniziano a girare per il verso giusto.

Quindi, qual è la difficoltà nel diffondere gli strumenti di Clinical Governance?

L’applicazione della Clinical Governance non è un processo particolarmente complesso perché le strade che devono essere percorse sono oramai molto chiare. Peraltro anche alla luce di alcune recenti normative (citiamo tra tutte il DM 70 del 2015) è oramai imprescindibile doversene occupare. Tuttavia la sua corretta applicazione, coinvolgendo e formando i professionisti clinici, integrando gli indicatori con il sistema di budget, coordinando tutti i servizi di staff che devono essere coinvolti, diventa un processo articolato che prevede un orizzonte temporale di almeno tre anni. Per non calare gli strumenti di Clinical Governance in modo verticistico è necessario entrare nella “vita reale dei professionisti” con grande capacità di ascolto, analizzarne i problemi, capire le ragioni degli eventuali disallineamenti alle evidenze scientifiche, le resistenze al cambiamento e molti altri elementi. Questo non sempre viene fatto. È necessario favorire un passaggio culturale dove i professionisti clinici capiscano che solo attraverso una misurazione sistematica dei loro comportamenti clinici, degli esiti assistenziali, degli eventi avversi dei pazienti è possibile fare delle distinzioni tra chi lavora bene e chi lavora meno bene e di conseguenza comprendere cosa tagliare (in modo chirurgico e non trasversale!) e in quali ambiti reinvestire. Solo attraverso la misurazione è possibile intervenire con modifiche organizzative evidence-based. L’alternativa è essere impotenti e non avere nulla di concreto da proporre quando vengono imposti tagli indiscriminati per far quadrare i bilanci degli ospedali e delle ASL.

 

Claudio Beltramello: Dopo la Laurea in Medicina in Chirurgia conseguita nel 1995, Claudio Beltramello si specializza in Igiene e Medicina Preventiva approfondendo la sua formazione in successivi master e corsi di formazione dedicati alla gestione d’impresa, all’organizzazione sanitaria, all’epidemiologia tropicale, alla gestione delle emergenze sanitarie di salute pubblica, all’equità in Sanità e alla Clinical Governance. Attualmente è Professore a contratto presso l’Università di Padova dove insegna “Organizzazione e management delle strutture sanitarie”; “Qualità e rischio clinico”; “Epidemiologia della salute”; “Medicina di Comunità”. La sua attività libero professionista e di formatore si svolge soprattutto con la Fondazione GIMBE (Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze) di Bologna. Negli ultimi anni ha collaborato come consulente con l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova, l’Ospedale di Treviso, le ASL di Venezia e di Vicenza. La sua attività di formazione è soprattutto incentrata sui seguenti temi: gestione della qualità; strumenti di Clinical Governance; misurazione della performance; gestione del cambiamento nelle organizzazioni sanitarie; Evidence Based Management.

[1] BMJ, 1996;312:71 – Evidence based medicine: what it is and what it isn’t. 13 January 1996

[2] Evidence.it – David Sackett: addio al padre dell’Evidence-based Medicine. 27 maggio 2015 – Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze (GIMBE)

LE CATENE DELLA SANITÀ: COSA OSTACOLA LA PREVENZIONE IN ITALIA

Luciana Bevilacqua è stata una delle prime ad introdurre la cultura e la formazione metodologica per valutare la qualità e la sicurezza delle cure nel nostro Paese. Neurologa, con una successiva specializzazione in Igiene, ha avviato il Servizio Qualità all’Ospedale Niguarda di Milano nel 1992  [1] . Le linee guida ministeriali che ha contribuito a stendere per una Gestione del Rischio incentrata sul sistema delle segnalazioni “no blame” e dell’incident reporting sono rimaste in piedi nei due lustri successivi alla pubblicazione. Sanità 360° ospita la sua analisi, nata da vent’anni di esperienza, sui gravi ritardi strutturali che impediscono alla prevenzione di svilupparsi al pieno delle sue potenzialità.

 

AVERE UN PIANO

Un’aspettativa di vita inferiore di circa tre anni, registrata a Caserta rispetto a Trento [2] , è una buona introduzione per affrontare il primo problema della prevenzione in Italia: l’assenza di una programmazione nazionale. Siamo un Paese che decide il dà farsi sulla base delle situazioni, lasciando spazio alla variabilità e all’arbitrio – del momento e del luogo – nelle scelte organizzative. Questo ha un costo enorme sul piano della prevenzione poiché essa non riguarda solo la salute del singolo paziente nel momento in cui entra in ospedale, ma la cura della popolazione nei successivi decenni. Abbiamo bisogno di una cornice di programmazione e di un’analisi epidemiologica, che si chieda non quale sia il problema adesso, ma quale sarà nel medio/lungo periodo. La diseguaglianza degli screening – che presenta drammatiche differenze di successo tra Nord e Sud – e la corsa ad affrontare la cronicità, sono due effetti diretti di vent’anni di ritardo. Già negli anni ‘80 sapevamo che un terzo della popolazione avrebbe sofferto di malattie croniche e ne avrebbe avuta più di una contemporaneamente. Pianificare allora avrebbe ridotto la pressione di oggi. Gran parte della prevenzione si risolve, infatti, in ciò che non accade: malattie, incidenti, necessità di ricovero. Abbiamo bisogno di una programmazione e abbiamo bisogno che sia nazionale e vincolante. Le azioni che portano le persone a non ammalarsi devono essere stabilite in anticipo, non finanziate a macchia di leopardo. E devono essere uguali per tutti.

LA BUONA GERARCHIA

Questo ci porta alla seconda condizione che rende possibile una prevenzione piena ed efficace: ristabilire la gerarchia dell’autorità. Ciò implica due distinte affermazioni di principio. La prima è: “La qualità delle cure è più importante dell’economia”. Ovvero: gli interventi, i farmaci, gli strumenti scelti non devono essere quelli che costano meno ma quelli che, bilanciando costo e prova scientifica, si rivelano migliori. La seconda affermazione è: “Le opinioni non sono tutte uguali”. Tutti hanno pari dignità, ma il parere di chi ha studiato decenni è più autorevole. Bisogna contrastare l’umiliazione del sapere che ha indebolito ogni ambito della società: dalla scuola alla salute. L’aumento dei casi di morbillo da 6 a 168 in uno solo anno in Toscana  [3] testimonia che l’ignoranza e le teorie deliranti non hanno diritto di essere considerate alla pari di quelle nate dallo studio, dalla fatica, dalla ricerca di intere vite, sia in Italia che all’estero.

 

 

GLI INGREDIENTI DELLA PASSIONE: COMPETENZE, FORMAZIONE, DIGNITÀ

Per sostenere l’autorevolezza, però, è necessario radicarla nelle competenze, costruite attraverso la formazione, che sono la chiave di volta, insieme a una retribuzione adeguata, del riconoscimento sociale delle professioni. Non è un caso, perciò, che il terzo grave limite della prevenzione riguardi la formazione. In Italia la formazione è ancora principalmente fondata su lezioni frontali nonostante sia dimostrato che l’unica formazione rivolta a professionisti sanitari veramente efficace in alcuni ambiti si basi sulla simulazione degli scenari di rischio, sulle crescite di competenze no skill  [4] , con allenamento a lavorare in equipe. È una carenza culturale che deve essere sanata già durante i corsi universitari e post universitari perché, mentre questi ultimi proliferano, diminuisce la capacità pratica di operare nei reparti e trattare i pazienti. L’origine è un abito mentale che privilegia la teoria alla pratica e che si riflette in un altro ritardo italiano: la certificazione delle competenze. Per esempio: tuttora (sulla carta) un laureato in infermieristica può essere impiegato, indifferentemente, in un laboratorio di ricerca, in ambito psichiatrico, o in un reparto di chirurgia. Ma non è così. La medicina è talmente complessa ed articolata da richiedere una formazione specialistica. In Inghilterra esistono certificazioni che vengono richieste a distanza di pochi anni per dimostrare che un infermiere non è solo un infermiere, ma è specializzato in assistenza cardiologica, chirurgica, oncologica, si è formato su quei campi, ha fatto esperienza nei reparti specialistici. Portare le competenze al centro della programmazione e della pratica sanitaria aiuta, inoltre, a riequilibrare il rapporto tra le varie professioni sanitarie. Il ritardo dell’Italia nell’appianare la differenza sociale tra medici ed infermieri è drammatico. Ed è antistorico. Tuttora gli infermieri, anche per carenza di risorse, non partecipano al giro mattutino, compilano una cartella assistenziale che è diversa da quella dei medici e non integrata. Come se i pazienti non fossero gli stessi e il processo di cura non fosse uno solo, rivolto a soddisfare i bisogni di salute del paziente. Di contro si è snaturato il valore della documentazione clinica che, in alcune regioni, ha assunto una valenza prevalentemente “amministrativa con ricadute economiche” e la lettura della cartella non sempre aiuta a comprendere il percorso del paziente, la sua evoluzione clinica, l’albero decisionale dei professionisti.

È da questi elementi – autorevolezza, competenze, formazione, giusto riconoscimento sociale e adeguata retribuzione – che si ricostruisce un dato fondamentale per la qualità delle cure: la passione degli esercenti la professione sanitaria e per il loro lavoro. Persone che hanno una missione, non solo dipendenti che timbrano il cartellino.

GOVERNO SANITARIO ED EMPOWERMENT DEL PAZIENTE

Quando iniziai a lavorare nei primi anni ’70, ogni aspetto della vita ospedaliera era incentrato sull’organizzazione ‘sovietica’ del lavoro a discapito della sensibilità dei pazienti: i prelievi si facevano immancabilmente all’alba, il pranzo veniva servito in tarda mattinata e i pazienti – che a casa loro assumevano regolarmente le medicine e si prendevano cura di sé – improvvisamente perdevano qualsiasi autonomia e venivano considerati totalmente privi della loro indipendenza. Dopo oltre 40 anni possiamo dire con ragionevole sicurezza che non è cambiato quasi assolutamente nulla: i ritmi ospedalieri appaiono come i moti delle stelle: certi e immutabili. Ma non è così e non è un tema secondario: l’organizzazione del lavoro in ospedale influenza pesantemente sia il rapporto con il paziente – il cui isolamento, se possibile, è cresciuto nel corso degli anni – sia la politica dei costi, che in molti casi potrebbe essere più efficiente se, ad esempio, la programmazione dei turni fosse meno rigida, e rispondesse ai flussi di lavoro e a una reale umanizzazione delle cure. Un esempio su tutti è quello delle sale operatorie nel settore pubblico: lavorano 4/5 ore al giorno (dalle 15 circa la maggior parte di esse è chiusa) e non sono attive il sabato e la domenica. Rimangono aperte solo per l’urgenza, come le sale diagnostiche. Perché? Vuol dire che potrebbero essere la metà, o che le liste di attesa potrebbero dimezzarsi? Altro esempio: la riabilitazione non è una terapia necessaria al paziente sempre, come un farmaco, ma viene somministrata secondo l’organizzazione del lavoro, per cui può non essere effettuata la domenica e i giorni festivi, a volte anche il sabato. Perché succede, se i pazienti continuano ad essere ricoverati durante il fine settimana allo stesso costo dei giorni feriali? Il settore privato ha dimostrato una flessibilità di gran lunga maggiore di quello pubblico nello sfruttare le risorse strutturali (sale operatorie, diagnostica aperta) e nell’indirizzare il personale laddove ve n’è necessità (turni). Lo spreco di risorse è doppiamente un tema di prevenzione: perché priva altre aree di una parte dei finanziamenti che potrebbe ricevere e diluisce i tempi dei ricoveri, con tutti i rischi aggiuntivi che questo comporta.

[1] Misurare l’immateriale. Riflessioni per una società trasparente (Franco Angeli Editore)

[2] Il Mattino, Mercoledì 25 Ottobre 2017

[3] Repubblica Firenze, 8 febbraio 2018 

[4] Quelle competenze non tecniche che sono considerate sempre più importanti in ambito sanitario: dal saper comunicare al lavorare in equipe.