LA PREVENZIONE DEI RISCHI IN RADIOLOGIA E DIAGNOSTICA PER IMMAGINI
Il Consiglio medicale di Sham ha pubblicato il dossier “La Prospettiva dell’assicuratore. La prevenzione dei rischi in radiologia e diagnostica per immagini”. Una panoramica sulle leggi, le esperienze e i casi studio che mettono in risalto i punti di forza e quelli critici nella gestione del rischio in un ambito divenuto snodo focale dei percorsi di cura contemporanei.
La Dottoressa Margherita Bianchi e il Dottor Andrea Soccetti hanno contribuito alla stesura del dossier e ci raccontano in prima persona le loro conclusioni.
QUANDO LO SPECIALISTA DEVE DIRE DI NO
Il rischio connesso all’eccesso di prescrizioni diagnostiche, il costo per i pazienti e l’orizzonte collegiale del percorso di cura.
Margherita Bianchi; Responsabile Organizzazione, Sistema Qualità, Accreditamento ASL Verbano Cusio Ossola.
“Spesso la prescrizione di indagini diagnostiche radiologiche non è attentamente soppesata sotto l’aspetto del rischio. La formazione focalizzata sui rischi connessi all’esecuzione degli esami, e quindi sulla loro opportunità, è obbligatoria per gli specialisti radiologi, ma non lo è per la galassia dei medici prescrittori: cioè coloro che richiedono l’indagine.
Lo scopo di richiedere un esame è quello di avere una diagnosi veloce e dirimente, ma non è sempre così facile: l’esame “giusto” esiste solo in relazione al momento, al quesito e allo stato del paziente. L’esame “giusto” perciò, è spesso frutto di un confronto tra gli specialisti basato sulla storia del malato e su un obiettivo diagnostico preciso.
Attualmente, invece, i servizi di radiologia e diagnosi per immagini sono oberati di richieste, spesso generiche. Troppi esami – e troppo pochi quesiti diagnostici formulati con precisione – hanno, però, un costo che si riverbera direttamente e indirettamente sulla sicurezza delle cure.
Il primo rischio è diretto: la somministrazione delle radiazioni ionizzanti è un rischio in sé stesso, ben delineato a livello normativo.
Il secondo è il carico di lavoro degli specialisti, che riduce un elemento fondamentale del processo di cura: il tempo della riflessione (audit) per il team di medici. Un rischio che si rivela anche nel caso di reperti casuali, ovvero quei “segni” di malattia che, indipendentemente dal quesito diagnostico, appaiono durante gli esami e ai quali può essere data attenzione nella misura in cui il personale ha il tempo materiale per analizzarli in profondità.
Ulteriore conseguenza della sovra-prescrizione è l’allungamento delle liste d’attesa e il costo socio-economico che esami – spesso molto onerosi – esigono per il sistema sanitario impoverendolo, quando non opportuni, di risorse che sarebbero meglio applicate altrimenti”.
Quali conclusioni si traggono dal quadro che fa della situazione?
“In primo luogo l’importanza dell’incident reporting: gli ‘incidenti’, che abbiano o meno un esito sfavorevole sulla salute del paziente, vanno considerati come una fonte per la ricerca. Non si può ridurre il rischio senza conoscerlo, e non si può conoscerlo senza studiare cosa non è andato come previsto o deve, comunque, essere migliorato.
In secondo luogo, bisogna ribadire la centralità del quesito diagnostico che è dirimente sull’opportunità di eseguire o meno un esame. Molte volte è assente nelle richieste e ciò rischia di ostacolare una corretta refertazione.
Per capire il perché bisogna tener conto del fatto che il percorso di cura, ormai, è così articolato da far sì che non esista più il singolo medico, ma una squadra di professionisti che lavora assieme. Di conseguenza, il percorso migliore passa attraverso un quesito diagnostico preciso e, nei casi in cui è possibile, il confronto preliminare tra il medico richiedente e il radiologo specialista. Ciò permette al radiologo di indirizzare la sua ricerca prima sul quesito diagnostico, verificarlo e passare, poi, all’esame generale del reperto per verificare che non ci siano altri elementi non previsti. È un metodo che fa risparmiare tempo e fa guadagnare in efficacia. In più, è un metodo che porta il radiologo a contribuire attivamente nel percorso di cura in quanto specialista che può e deve – come nel nostro caso studio presentato nel dossier Sham – individuare l’esame migliore per l’esigenza degli altri specialisti e la tutela del paziente e sconsigliare, proprio sulla base della sua specializzazione ed esperienza, un esame che non ritenga opportuno”.
Un’altra implicazione della crescente articolazione del percorso di cura citata dalla Dottoressa Bianchi è la fondamentale importanza di un corretto flusso di informazioni relative al paziente. Informazioni che devono fluire tra il personale all’interno dell’ospedale o tra due ospedali diversi. È sempre più difficile, infatti, ricomporre la storia clinica, i numerosi esami e referti a livello cartaceo.
Il fascicolo sanitario elettronico sembrerebbe la soluzione migliore, ma è una risposta molto frammentata nella Sanità italiana, dove i software di singoli ospedali, ASL e Regioni, differiscono gli uni dagli altri. Non esiste inoltre un database nazionale e l’apertura del fascicolo stesso è a discrezione del cittadino.
Allo stato attuale, viste le prime esperienze regionali avviate, l’impressione che i Professionisti ricavano, come emerge dal parere espresso del Dottor Andrea Soccetti di Ancona, è quello di uno strumento di dubbia validità operativa sul piano assistenziale. Né, per varie ragioni – che vanno dalla suddetta frammentazione a un’interpretazione stringente della legge sulla Privacy – pare possa essere implementato nell’immediato futuro. Sono due i livelli sui quali, invece, si può intervenire anche se, a prima vista, possono apparire contraddittori. Il primo è la digitalizzazione dei singoli ospedali; il secondo è una minore centralità della tecnologia.
IL RITORNO ALL’ATTO MEDICO IN RADIOLOGIA
L’assunzione di responsabilità nella continuità assistenziale da parte dei radiologi, un diverso approccio alle liste d’attesa, una svolta culturale, mediatica e formativa, sull’opportunità delle prescrizioni.
Andrea Soccetti, Responsabile SOS Risk Management AOU Ospedali Riuniti Ancona.
“Il ruolo di chi si occupa di Risk Management è duplice: guardiano e ricercatore. L’obiettivo è la sicurezza delle cure; le fonti spaziano dalle cartelle cliniche, dall’Ufficio Relazioni con il Pubblico alle istanze RCT; lo strumento è la consapevolezza, tra tutti gli attori nelle varie fasi di un processo sanitario, delle criticità e delle implicazioni che spesso non si percepiscono se non osservandole nella loro globalità.
Questo elemento è particolarmente importante in radiologia e diagnostica per immagini. Oltre ai rischi, per così dire, “intrinseci” della disciplina – omissione o errore diagnostico, l’invasività delle tecniche, radiazioni ionizzanti – in quest’ambito di cura marcatamente interdisciplinare, esiste, infatti, un’altra categoria di rischio che non è intrinseca, ma il prodotto della contemporaneità: una de-contestualizzazione che minaccia la continuità assistenziale sia in fase di ingresso che in fase di uscita.
Prima, però, di raggiungere il livello in cui il radiologo opera e può fare la differenza, è importante ribadire le criticità del processo organizzativo che precede il suo intervento: un contesto che è caratterizzato dall’eccesso di prescrizioni, che porta a un allungamento delle liste d’attesa e alla susseguente pressione, politica e sociale, a ridurle affidandosi alla tecnologia e all’organizzazione. È, fondamentalmente, una risposta sbagliata, perché identifica le liste d’attesa come il problema, quando in realtà sono un sintomo. La causa sono le troppe prescrizioni non opportune”.
La prima criticità, quindi, prima che organizzativa, è di cultura sanitaria?
“La risposta è sì, ma con riserva. La difficoltà della questione nasce dal fatto che i fattori non si dispongono in maniera lineare, ma si sovrappongono e si influenzano a vicenda. All’origine, il problema è di aspettativa: ci si aspetta – e i media hanno contribuito – che più esami equivalgano a più salute. Non è vero.
Esami non opportuni significano più rischi: in primis perché gli esami radiologici comportano una quantità di rischio a prescindere; in secondo luogo, perché consumano risorse e tempo-lavoro senza contribuire alla sicurezza delle cure. La risposta, perciò, coinvolge sia l’informazione al pubblico che la formazione medica fin dall’Università. L’assunto è semplice: se l’obiettivo è la qualità del percorso di cura, le scelte organizzative che distolgono risorse – intellettuali e materiali – senza produrre benefici, nella migliore delle ipotesi non contribuiscono a quell’obiettivo; nella peggiore lo ostacolano. In radiologia, tra scelte organizzative e qualità delle cure esiste uno svincolo che fa da collante: l’appropriatezza prescrittiva. La risposta al bisogno di salute e alla riduzione delle liste di attesa non è “più esami e più in fretta”, ma “togliere gli esami non opportuni e dare ai medici più tempo per dedicarsi ai singoli casi”.
Qui inizia il ruolo dei radiologi. Partiamo dal rischio che citava: in cosa consiste la de-contestualizzazione dei radiologi in relazione ai pazienti?
“Il rischio fondamentale – al quale sia l’incessante ritmo di lavoro che l’incompleta presentazione da parte dei medici prescrittori contribuiscono – è che il paziente compaia e scompaia davanti al radiologo e che quest’ultimo – o quest’ultima – fatichi a inquadrarlo e, successivamente, a seguirlo.
Nella fase di entrata non sempre il radiologo conosce nel dettaglio storia, realtà clinica e bisogni assistenziali del paziente. Nella fase di uscita, non sempre alcuni contenuti che emergono dalla refertazione sono adeguatamente restituiti al paziente o al medico prescrivente. Quindi alcune consapevolezze rischiano di perdersi o venir recepite tardivamente. Ciò avviene, in particolare, quando dall’esame emergono dei reperti inattesi: informazioni che dovrebbero preludere a un’ulteriore progressione e approfondimento diagnostico.
Può avvenire, con maggiore probabilità nel caso di un passaggio da un ospedale all’altro, che il referto non dia seguito a tutti gli approfondimenti necessari, il che si traduce in una non continuità assistenziale e, in alcuni casi, in un gravissimo danno per la salute del malato.
In due eventi distinti, portati come casi studio nel dossier Sham, l’esame radiologico di persone vittime di incidenti stradali evidenziò danni ai tessuti che non avevano un’origine traumatica. Questa vitale informazione è andata persa nel passaggio dall’ospedale di primo ricovero alla struttura specializzata dove sono stati trasferiti. I pazienti sono stati guariti dai traumi subiti, dimessi, e sono deceduti pochi mesi dopo per tumore.
L’esame radiologico avrebbe dovuto far scattare una nuova serie di accertamenti, ma ciò non è avvenuto. Questi sono due casi limite, ma sono particolarmente utili per delineare un aspetto centrale nella gestione del rischio in radiologia: i radiologi sono fondamentali per garantire la continuità del percorso di cura che, senza di loro, rischia di interrompersi”.
Sapendo questo, come si interviene nel percorso di cura?
“L’implicazione è contenuta nella formulazione stessa che i radiologi hanno scelto per il loro lavoro e che è, al tempo, bellissima ed esatta: quello radiologico è un atto medico. I radiologi non sono attori unicamente nel processo diagnostico; sono parte attiva dell’intero percorso di cura.
Laddove i contenuti del referto portino all’evidenza che un ulteriore approfondimento diagnostico è necessario – e dove tale approfondimento possa essere portato a termine dallo stesso professionista o nella stessa struttura – il radiologo può e deve contribuire alla programmazione immediata della nuova fase diagnostica.
Se il medico prescrivente opera al di fuori della struttura ospedaliera, quello a cui si deve aspirare è che il radiologo si assuma pienamente carico del paziente e si assicuri che gli accertamenti vengano portati a termine. Non è, sia chiaro, che i radiologi si sottraggano ai loro doveri; è vero, invece, che l’attuale focalizzazione su velocità e tecnologia non li aiuta a prendersi carico del paziente. Ciononostante, è esattamente nel curare che la definizione di atto medico radiologico assume il suo pieno significato. Riequilibrare il contesto in cui i radiologi operano richiede un grande sforzo collegiale: culturale, formativo, gestionale. E lo merita”.
Ci sono strumenti che possono facilitare la trasformazione?
“Uno su tutti è la digitalizzazione all’interno degli ospedali. Qui la tecnologia è sia centrale che, nel complesso, carente. Ogni singola Regione si muove indipendentemente e il grado di digitalizzazione – o i criteri secondo i quali viene attuata – variano ampiamente da una struttura all’altra. Per molte ragioni che meritano una discussione a parte, il fascicolo sanitario elettronico – il dossier personale consultabile fuori dal contesto della singola struttura – non offrirà uno strumento assistenziale nel breve e medio futuro, se mai lo farà.
La digitalizzazione del percorso ospedaliero – quindi la comunicabilità immediata tra reparti e l’aggiornamento in tempo reale del percorso e delle necessità di cura – è, invece, un obiettivo concreto che può essere raggiunto previa la consapevolezza della sua importanza, la volontà di attuarlo e gli investimenti necessari”.