MEDICINA DIFENSIVA: LE CAUSE E GLI EFFETTI

In Italia, la medicina difensiva pesa per oltre il 10% sui costi sanitari e influenza le scelte cliniche. Alleggerire la pressione sui sanitari riduce i costi, non la qualità delle cure. 

Per medicina difensiva si intende quell’insieme di strategie che il professionista sanitario mette in atto al fine di allontanare il rischio di una controversia con il paziente. Si tratta, perciò, di una perturbazione nella pratica medica: il sanitario affianca o sovrappone le scelte che ritiene necessarie e/o migliori con altre che riducono la possibilità di una denuncia e assecondano le pressioni dei familiari e l’aspettativa del malato stesso.

Già nel 2005 il Journal dell’American Medical Association (JAMA) [1] individuava 6 campi nei quali la medicina difensiva si manifesta, sia essa nella sua forma “positiva” (Assurance Behavior), o “negativa” (Avoidance Behavior). Alla prima afferiscono la prescrizione di farmaci ed esami in eccesso, la richiesta di consulti con altri specialisti – ai quali eventualmente cedere il paziente in questione – pur non ritenendoli necessari e l’impiego di pratiche diagnostiche invasive e superflue. Alla medicina difensiva negativa, invece, appartengono la rinuncia ad eseguire interventi o terapie rischiosi e a seguire pazienti ritenuti troppo problematici.

Il 27 Marzo 2015 Il Ministero della Salute quantificò [2] in 10 miliardi di Euro il costo annuo diretto delle sole pratiche difensive positive: il 10,5 per cento dell’intera spesa sanitaria pari allo 0,75 per cento del PIL italiano. Tre studi citati nel documento [3] ministeriale aggravano la prospettiva riportando che, in media, il 78 per cento dei sanitari aveva praticato la medicina difensiva almeno una volta nel mese precedente l’intervista. Una percentuale che toccava uno stupefacente 92 per cento per la fascia d’età compresa tra i 32 e i 42 anni. E il 93 per cento del campione in un’indagine AgeNas, condotta su 1500 medici l’anno precedente, riteneva che i comportamenti di medicina difensiva sarebbero aumentati nel futuro.

Questa tendenza non è nuova: si è verificata negli Stati Uniti in anticipo rispetto all’Italia. Su 824 medici della Pennsylvania coinvolti in uno studio pubblicato su JAMA ancora nel giugno 2005 – scelti tra specialisti in 6 discipline e quasi tutti con più di 10 anni di esperienza – il 93 per cento dichiarava di praticare la medicina difensiva. Questo, a causa di un incremento nelle controversie e richieste di risarcimento per malpractice che, tra il 2000 e il 2003, aveva fatto triplicare i costi della copertura assicurativa da una media di 33mila ad una di 72mila dollari l’anno [4] .

Gli effetti della medicina difensiva non sono necessariamente pregiudizievoli per la salute del paziente. Molti esami superflui non comportano alcun danno mentre la spinta a condividere con il malato le scelte terapeutiche può portare ad una più completa informazione. D’altro canto, però, gli esami invasivi – per esempio le biopsie – comportano rischi superflui se l’esame stesso non è necessario, i costi dirottano risorse che potrebbero essere impiegate dove sono realmente utili e la rottura pressoché integrale del legame di fiducia tra medico e paziente – che è all’origine dell’intera questione – rischia di ridurre sia la qualità che l’efficacia delle cure [5] .

Considerando anche gli effetti a lungo termine che non sono immediatamente quantificabili – rinuncia a terapie efficaci ma rischiose, i ritardi nell’erogazione di esami e interventi che pure vengono somministrati e l’influenza sulle scelte cliniche esercitata da un clima di sospetto reciproco – la medicina difensiva appare come uno dei principali – e più onerosi – problemi della sanità contemporanea.

Dato che la principale causa è stata individuata nella percezione della propria vulnerabilità in caso di contenzioso da parte del professionista sanitario – e nell’esperienza diretta o indiretta di denunce e richieste di risarcimento – è proprio in questo campo che si sono concentrati gli sforzi per circoscrivere gli effetti della medicina difensiva.

Anche qui il mondo anglosassone ha affrontato il problema in anticipo rispetto all’Italia. In uno studio pubblicato ben 21 anni fa sul Quarterly Journal of Economics emerse che “le riforme che riducono direttamente la pressione della responsabilità per gli erogatori delle cure portano ad una riduzione tra il 5 e il 9 per cento delle spese sanitarie senza effetti apprezzabili su mortalità o complicazioni” [6] .

Con l’approvazione della Legge Gelli – Bianco anche l’Italia ha aggiornato la propria normativa accogliendo il consenso internazionale che la sicurezza delle cure si garantisce attraverso un capillare gestione del rischio basata sulla raccolta e analisi dei dati sanitari. Parallelamente, ha riaffermato la libertà di medici e operatori all’interno delle linee guida riconosciute che diventano, così, una garanzia anche per i professionisti sanitari.

[1] Defensive Medicine Among High-Risk Specialist Physicians in a Volatile Malpractice Environment JAMA. 2005;293(21):2609-2617. doi:10.1001/jama.293.21.2609 June 1, 2005http://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/200994

[2] http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=1994

[3] Ibidem –  Centro Studi “Federico Stella”, Università Cattolica del S.CuorediMilano; Ordine provinciale dei medici-chirurghi e degli odontoiatri di Roma

[4] JAMA, art. cit.

[5] Mello MM, Studdert DM, DesRoches CM.  et al.  Caring for patients in a malpractice crisis.  Health Affairs (Millwood). 2004;23:42-53 http://content.healthaffairs.org/content/23/4/42.full cit: “First, perceptions influence behavior with respect to practice environment and clinical decision making. Second, perceptions influence the physician-patient relationship and the interpersonal quality of care”.

[6] Daniel Kessler, Mark McClellan; Do Doctors Practice Defensive Medicine?. Q J Econ 1996; 111 (2): 353-390. doi: 10.2307/2946682 https://academic.oup.com/qje/article-abstract/111/2/353/1938365/Do-Doctors-Practice-Defensive-Medicine?redirectedFrom=fulltext   cit: “We find that malpractice reforms that directly reduce provider liability pressure lead to reductions of 5 to 9 percent in medical expenditures without substantial effects on mortality or medical complications”.

MEDICINA NARRATIVA E GESTIONE DEL RISCHIO

Come può la narrativa umanizzare i percorsi di cura e migliorare la gestione del rischio?

Nasce dalla recente lettera del libro di Oliver Sacks: “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, l’interessante riflessione sul tema della medicina narrativa.

Il libro può a ben ragione considerarsi un esempio di medicina narrativa ante litteram, tenuto conto che è stato pubblicato nel 1985 e che il primo articolo apripista di questa corrente è apparso sul British Medical Journal nel 1999 con il titolo di: “Medicina basata sulla narrazione in un mondo basato sulle evidenze”.

Semplicemente, come descritto nel libro di Sacks, neurologo illuminato, la medicina narrativa è uno strumento che coinvolge direttamente professionisti sanitari, manager della sanità, risk manager e pazienti, ponendo questi ultimi al centro di ogni agire sanitario per migliorare la gestione del rischio clinico e la qualità delle cure.

La narrazione, come elemento fondamentale nei processi di cura, si aggiunge e si integra ai dati quantitativi raccolti dalle Evidence Based Medicine, al fine di garantire un approccio clinico-terapeutico-assistenziale olistico e realmente orientato all’umanizzazione delle cure.

Il paziente “si racconta” e/o “si scrive” nella sua complessità: non parla più di se riportando solo i sintomi, ma le sue emozioni, il suo stile di vita, il contesto sociale, i suoi valori.

Espone il suo punto di vista sul percorso di cura che lo ha coinvolto, sia esso positivo o negativo, offrendo ai professionisti sanitari e ai manager (direttori sanitari, risk manager, responsabili qualità, responsabili reclami e gestione sinistri) l’opportunità di modificare processi e procedure di presa in carico dei pazienti, migliorandoli, e di ottimizzare le risorse disponibili, sia umane che economiche.

Ma le stesse organizzazioni sanitarie possono ricorrere a questo potente strumento per migliorare la comunicazione interna tra professionisti, accompagnare cambiamenti organizzativi, ridurre lo stress lavoro – correlato.

Tutto ciò sarebbe di certo giovamento al fenomeno della medicina difensiva, ricostruendo quella alleanza terapeutica medico-paziente oggi in crisi. Potrebbe ridurre le richieste risarcitorie per presunta malpractice medica, come la non adesione da parte dei pazienti alle indicazioni, prescrizioni e ai consigli dei medici in genere, fenomeno noto come non-compliance, per non averle capite, o perché non sono per lui accettabili, in termini di cultura, di credenze, di ideologia, di etica.

Il limite da superare è considerare la narrazione soltanto parole e poesia. Le parole hanno connotazioni molto concrete e molto pratiche: le parole fanno succedere le cose.

Parole e farmaci hanno lo stesso meccanismo d’azione?

Secondo il neurofisiologo Fabrizio Benedetti, intervenuto al V Convegno Nazionale di Medicina Narrativa di Foligno, si: la parola può percorrere nel cervello le stesse vie biochimiche dei farmaci.

La narrazione biunivoca medico-paziente è pertanto elemento fondamentale per l’umanizzazione delle cure e la migliore applicazione delle EBM.

L’IRCSS Cà Granda di Milano ha attivato un interessante progetto intitolato : “Casi clinici in scena” in collaborazione con l’università di Milano, che permette al personale sanitario che Vi partecipa l’attribuzione di crediti ECM.

E quale migliore occasione per fare formazione e cultura del rischio?

L’ospedale di Alessandria ha attrezzato una stanza dedicata alla scrittura creativa, dove medici e malati posso lasciare i propri pensieri, perché a volte “scrivere aiuta a guarire”.

Il tema dell’umanizzazione delle cure è stato inserito per la prima volta nel Patto per la salute 2014-2016 , nell’articolo 4, dove si afferma che “nel rispetto della centralità della persona nella sua interezza fisica, psicologica e sociale, le Regioni e le Province Autonome si impegnano ad attuare interventi di umanizzazione in ambito sanitario che coinvolgano aspetti strutturali, organizzativi e relazionali dell’assistenza” e si predispone un programma annuale di umanizzazione delle cure che comprenda la definizione di un’attività progettuale in tema di formazione del personale e un’attività progettuale in tema di cambiamento organizzativo indirizzato soprattutto all’Area critica, Pediatria, Comunicazione, Oncologia, Assistenza domiciliare.

La medicina narrativa è uno strumento per realizzare questo progetto, ma purtroppo sono ancora scarse le iniziative intraprese in tal senso, salvo pochi mirabili esempi come quelli sopra descritti. Secondo l’indagine del 2014 di AGENAS sulla misura dell’umanizzazione delle cure in sanità, su una scala di punteggi da 0 a 10,  la medicina narrativa ha un valore di solo 2,2.

La gestione del rischio clinico non è cosa a sé dall’umanizzazione delle cure e dal porre il paziente al centro di ogni agire clinico; tutt’altro! Né è parte costituente e la medicina narrativa è uno straordinario strumento di analisi e misura, in quanto le parole hanno un “peso specifico”.

La sfida è trovare criteri, metodi e strumenti per misurarle.

Spesso i pazienti soffrono di cose ben diverse da quelle indicate sulla loro cartella clinica. Se si pensasse a questo, molte loro sofferenze potrebbero essere alleviate”. Florence Nightingale.

 

Anna Guerrieri

 

Risk Manager Sham Italia

LINEE GUIDA: L’ETÀ DI MEZZO TRA LA LEGGE E I DECRETI

Le linee guida cliniche rappresentano un corpus di indicazioni riconosciute dalle diverse comunità scientifiche che assistono e indirizzano i professionisti sanitari nella cura di specifiche condizioni cliniche.

 

Non sono una raccolta omogenea in quanto differiscono sia nel metodo che nell’ente o Paese che le ha pubblicate. Alcune si basano sul consenso degli esperti, altre (evidence based guidelines [1]) sulla revisione sistematica della letteratura medica secondo una specifica metodologia.

Lo scopo delle linee guida è ridurre il rischio clinico riducendo la possibilità di incorrere in effetti imprevisti nonché la variabilità nell’approccio e nell’esito della cure. Nel complesso, sono considerate il parametro sul quale impostare la prassi sanitaria e valutare la congruità delle scelte terapeutiche. A livello internazionale sono particolarmente riconosciute [2] le linee guida di istituti come il SIGN (The Scottish Intercollegiate Guidelines Network), il National Institute for Clinical Excellence britannico, il Center for Control Disease e la National Guidelines Clearing House statunitensi. In Italia è in vigore il SNGL – il Sistema Nazionale per le Linee Guida – la cui attività verrà profondamente influenzata dalla legge Gelli – Bianco da poco varata (L. 8 marzo 2017 n. 24).

La legge prevede, infatti, che le nuove linee guida vengano prodotte da società scientifiche accreditate in un apposito elenco istituito presso il Ministero della Salute. L’istituzione di questo elenco è centrale nel funzionamento della legge, perché saranno le linee guida prodotte dalle società scientifiche registrate ad avere “valore di legge”. Ovvero: quelle alle quali i professionisti sanitari saranno tenuti, salvo casi specifici, ad attenersi (Art. 5) e il rispetto delle quali mette al sicuro l’operatore dall’accusa di imperizia (Art.6).

Sorge dunque il problema: chi scriverà le linee guida? Secondo il firmatario della legge, l’On. Federico Gelli, le società scientifiche in Italia sono circa 500 – alle quali andranno probabilmente aggiunti i diversi Ordini professionali e alcuni enti di ricerca. Solo quelle che rispetteranno i criteri che verranno fissati potranno accreditarsi.

Per quanto riguarda i tempi, il regolamentato per l’istituzione dell’elenco dovrà aspettare il decreto ministeriale da promulgarsi entro 90 giorni dalla pubblicazione della legge stessa (Art 5, Comma 1). Entro 120 giorni dalla legge dovrà essere promulgato un ulteriore decreto che regolamenterà le nuove funzioni dell’SNGL, previa intesa in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni.

La scaletta delle attività prevede, perciò, il varo delle regole per iscriversi all’elenco, l’iscrizione stessa – e quindi la valutazione delle domande presentate da parte delle società scientifiche, il varo delle regole per valutare e approvare le linee guida sottoposte e, infine, la valutazione e approvazione delle linee guida stesse.

Come recita, infatti, il sito del SNLG [3] le linee guida odierne non sono conformi alla legge appena approvata. Questo non vuol dire, però, che ci sia un vuoto. In mancanza delle nuove raccomandazioni, specificano sia l’Art 5 che l’Art 6 (Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria) valgono le buone pratiche clinico assistenziali, ovvero le procedure e/o raccomandazione aziendali, regionali e ministeriali in essere, sebbene non vi sia di esse una precisa definizione normativa. Una delle pochissime – e forse l’unica – definizione di buona pratica risale, infatti, al D.M 15 luglio 1997 e si riferisce a “standard internazionali di etica e qualità scientifica” [4] . In attesa che lo sforzo di sistematizzazione raggiunga la sua maturità, è ragionevole aspettarsi che la prima buona pratica sarà continuare a seguire la prassi corrente.

 

 

[1] http://www.sign.ac.uk/about/introduction.html

[2] Un elenco disponibile su http://www.sbbl.it/web/Links/LineeGuidaMedicina/

[3] “Si comunica che il sito è in fase di aggiornamento. Pertanto, i contenuti, ancorché consultabili, non sono ad oggi conformi a quanto previsto dalla L. 8 marzo 2017 n. 24. “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. http://www.snlg-iss.it/lgn#

[4] L.Benci, D.Rodriguez Commentario alla legge 8 marzo 2017, n.24 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Quotidiano Sanità edizioni